
MY MIRROR
Due sconosciuti entravano in una cabina, si sedevano uno di fronte all’altro e si guardano negli occhi per quattro minuti. All’uscita si raccontavano quello che avevano provato in quel breve e, al tempo stesso interminabile, periodo di tempo.
«Le reazioni sono state diverse, ma nessuno è restato indifferente all’altro. La stragrande maggioranza, dopo il contatto visivo, si è stretto la mano a chi ha incontrato nella cabina, gli ha sorriso, si è presentato, ha raccontato chi è. E la cosa più interessate è che questo è avvenuto indipendentemente dal colore delle pelle, l’età, il sesso», dicono i volontari che assistono le persone durante lo svolgimento del test.
L’installazione era costituita da due cabine. In ognuna delle quali le persone accedevano da ingressi opposti, in modo da non vedersi prima di essere entrate. All’esterno, delimitavano lo spazio dell’esperimento vecchi televisori e monitor su cui giravano in loop inquadrature di solo occhi.
L’idea di fondo è che nell’epoca dei selfie, dove ci si specchia solo negli schermi dei propri smartphone, specchiarsi negli occhi di un altro può essere un atto rivoluzionario.
Fragilità, povertà, migrazioni, malattia quando si incarnano in un volto smettono di essere un semplice fenomeno sociale, il titolo di un articolo, spesso di cronaca nera, ma diventano la vita del compagno di scuola e della sua famiglia, del vicino di casa, del parente prossimo.
«In un mondo in cui risorgono i muri, le parole d’odio diventano pallottole, la malapianta del razzismo riaffiora, è necessario ripartire proprio dalle regole di base, dall’”abc” delle relazioni. Guardare negli occhi l’altro, incontrare il suo sguardo è allora la premessa indispensabile ad ogni possibile discorso, riflessione o progetto», ha spiegato Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana.
Per informazioni e per riproporre l’esperienza potete contattare il Servizio Formazione di Caritas Ambrosiana formazione@caritasambrosiana.it
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