Dossier Immigrazione 2006

Ogni discorso sull'immigrazione, anche se applicato al panorama delimitato della nostra diocesi, non può prescindere da alcuni dati di partenza, rappresentati da altrettanti fenomeni non ignorabili. In primo luogo, bisogna considerare il permanere di una scandalosa sperequazione tra nord e sud del mondo relativamente all'uso delle risorse e alla qualità della vita; poi è necessario ricordare che le dinamiche della globalizzazione (che spesso mostra un'immagine superficiale e "facile" dei nostri paesi) hanno avvicinato nord e sud sia dal punto di vista dell'informazione che da quello della facilità degli spostamenti; infine è bene sottolineare la necessità, alle nostre latitudini, di forza lavoro proveniente da altre parti del mondo, al fine di mantenere un certo ritmo di crescita, a causa di un trend demografico che vede i paesi sviluppati diventare sempre più "vecchi".
Il fenomeno migratorio non può, sulla base di queste premesse, che avere un carattere inarrestabile. E le posizioni xenofobe e protezioniste si mostrano quantomeno velleitarie. Quanto più una collettività si convince che il fenomeno migratorio va considerato una realtà normale, stabile e strutturale, tanto più non si farà trovare impreparata di fronte a uomini e donne che bussano alle sue porte in cerca di condizioni più umane di vita. Fino a quando saranno realizzate le condizioni affinché nessuno debba scappare da conflitti, persecuzioni, miseria e fame, ci dovremo misurare con spostamenti epocali: l'etica della migrazione, in altre parole, rimanda all'etica dell'equilibrio dello sviluppo del pianeta e all'impegno della comunità internazionale nella lotta contro le forme di persecuzione e discriminazione che sono la causa di tante partenze, oltre che di tanti dolori.
Quando si scende nel vivo di un territorio (civile, ecclesiale), queste consapevolezze e queste istanze etiche devono tradursi in prassi capaci non più soltanto di accoglienza, ma anche di integrazione. In Italia e in Lombardia siamo ormai di fronte, per esempio, non più a un'immigrazione fatta solo di single, ma a un'immigrazione di famiglie. E ciò significa non più soltanto fame di lavoro e di un tetto sotto il quale dormire, ma presenza di donne e minori che sono portatori di sollecitazioni sociali e culturali complesse, le quali oltrepassano l'impellenza del bisogno materiale. Un tema sul quale Caritas Ambrosiana ha approfonditamente riflettuto, in occasione della presentazione del Dossier immigrazione 2006, è la presenza nelle scuole italiane e lombarde di centinaia di migliaia di minori di origine straniera. È una questione emblematica, che evidenzia le difficoltà del favorire integrazione: o ci attrezziamo per far funzionare meccanismi di mediazione culturale, o rischiamo di affiderci a una semplice contiguità fisica che non genera, automaticamente, come dimostra il recente caso francese, coesione sociale. È necessario dunque chiedersi quali processi effettivi vanno attuati e quali competenze occorre far maturare nel mondo della scuola, perché i nostri figli italiani e i ragazzi provenienti dall'estero crescano insieme. Perché, insomma, si sviluppi una nuova figura di cittadino italiano, non basta che "loro" imparino a fare le cose che facciamo noi, che parlino la nostra lingua, che si vestano come noi, che mangino quello che mangiamo noi: integrazione vuol dire andare verso qualche cosa che adesso non c'è ancora, costruire una società dove non c'è chi "integra" (ovvero assimila, se ci riesce), ma verso una società "integrata", costituita e corroborata da nuove identità sociale e culturali condivise, non immemori di quelle che le hanno precedute.
L'istanza dell'integrazione deve valere anche per l'immigrazione che la nostra società considera in qualche modo "indesiderata". Talvolta si ha la percezione che la nostra società sia disposta a tollerare ciò fa comodo (i lavoratori a poco prezzo disposti a fare le cento cose che noi non facciamo più, a presidiare ambiti lavorativi che altrimenti resterebbero sguarniti), ma non altrettanto i famigliari, i parenti, i congiunti che questi lavoratori vorrebbero chiamare a sé. Gli ostacoli posti negli ultimi anni ai legittimi desideri di ricongiungimento ne sono una dimostrazione, con risultati che producono danni sociali anche a migliaia di chilometri di distanza da noi. Un esempio: dalla Moldova arrivano molte donne che nelle nostre famiglie vengono impiegate come badanti, ma la difficoltà dei permessi e l'inadeguatezza delle politiche di accoglienza e integrazione le costringono a lasciare in patria, talora abbandonati, i propri figli. Così in Moldova vengono creati istituti, in sostanza orfanotrofi, per ospitare questi "figli dell'emigrazione", ragazzi abbandonati che a 16 anni devono lasciare le strutture dove sono stati inseriti. Caritas Ambrosiana finanzierà, durante il prossimo anno pastorale, il progetto di una casa-famiglia per alcune ragazze ultrasedicenni che vengono buttate fuori dagli orfanotrofi della Moldova, figlie di madri badanti in Italia. C'è un'immoralità nello sviluppo di un certo tipo di immigrazione: vengono sguarnite famiglie, vengono favorite lacerazioni affettive, vengono suscitati ulteriori problemi sociali, viene persino indebolito (privandolo del sostegno di un genitore o di una famiglia) il potenziale intellettuale dei paesi da cui i migranti partono. Mi sembra che sia eticamente corretto favorire certi ricongiungimenti, anche se bisogna al contempo porsi il problema del tessuto sociale che resta nei paesi di partenza dei flussi.
Un discorso in parte analogo si può fare per i rifugiati. Noi non possiamo soltanto riconoscere loro il diritto di rimanere nel nostro territorio, perché abbiamo appurato che sono in fuga da situazioni di persecuzione: bisogna dare loro anche gli strumenti per potere risiedere in Italia in maniera dignitosa. Eppure l'Italia è l'unico paese europeo che ancora non ha una legge organica sul diritto d'asilo, e questo rende molto più difficile il processo di integrazione. Parlare di "immigrazione indesiderata" significa allora segnalare il rischio di forme di accoglienza selettiva: finché gli stranieri ci fanno comodo possono entrare, appena esprimono altri bisogni poniamo delle questioni. Ed è un rischio molto forte in un territorio, come quello milanese e lombardo, che esprime una forte esigenza di manodopera, ma non deve cedere alla tentazione di ridurre i fenomeni migratori a questa dimensione. Infine, l'immigrazione rappresenta anche una sfida religiosa. E la chiesa di Milano non può non sentirsene interpellata. Per noi cristiani, infatti, il rapporto con lo straniero è connaturato con la nostra storia, con la nostra radice profonda. Non possiamo ignorare che Gesù si è identificato con il forestiero: "Ero un forestiero e mi avete ospitato". L'accoglienza, in altre parole, per il cristiano non è un optional. Ma, di più, la presenza in mezzo a noi, anche a Milano ("capitale", con Roma, dell'immigrazione italiana), di uomini e donne di altre appartenenze religiose, cristiane e non cristiane, si rivela un'eccezionale opportunità per precisare meglio la nostra identità: io, infatti, definisco meglio ciò che sono nel momento in cui mi metto in relazione con un fratello, che è portatore di una diversa identità. In terzo luogo, l'arrivo di tanti stranieri diventa una straordinaria occasione di evangelizzazione: la presenza di uomini e donne che non hanno mai conosciuto Gesù Cristo diventa per la chiesa, anche quella ambrosiana, un'opportunità mai vista prima per affinare il proprio spirito missionario.

don Roberto Davanzo

Convegno XVI Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes
Milano - Centro Paolo VI - 25 ottobre 2006


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