Nei tre mesi del primo lockdown sono state circa 9 mila le famiglie che hanno chiesto aiuto ai parroci della Diocesi di Milano.
Tra gli impoveriti dal Covid c’era chi, dopo la crisi economica del decennio precedente, aveva trovato rifugio nell’economia informale; chi pur avendo un lavoro, percepiva stipendi appena sufficienti per stare sopra la linea di galleggiamento e anche pezzi di ceto medio: liberi professionisti, piccoli artigiani, negozianti, che avevano dovuto interrompere le proprie attività. Quello che è accaduto nella primavera dello scorso anno ha mostrato quanto velocemente una quota non piccola di cittadini possa essere sospinta ai margini, quando la locomotiva d’Italia, come una certa retorica dipinge il capoluogo lombardo, è costretta a una breve, seppure brusca e del tutto eccezionale, battuta di arresto.
Dobbiamo fare tesoro dalla lezione che abbiamo appreso durante il Covid. Un modo per farlo è senza dubbio rivedere il sistema di aiuti pubblici. Prima di tutto mettendo mano agli ammortizzatori sociali. Dopo il clamoroso flop della cassa integrazione in deroga affidata alle Regioni, individuare un solo strumento per tutti i lavoratori pur modulandolo in maniera differenziata, come intende fare il Governo, può essere una soluzione. Va poi anche rivisto il reddito di cittadinanza. Senza però buttare il bambino con l’acqua sporca. Quella misura, che ha permesso all’Italia di allinearsi ai principali Paesi europei dove esiste da tempo, va difesa da chi vorrebbe liquidarla come uno “spreco assistenzialistico”. Ma il modo migliore per metterla al riparo da attacchi strumentali è, da un lato, contrastare gli abusi, dall’altro, correggere il meccanismo di funzionamento, rivedendo i criteri di accesso a causa dei quali oggi quelle risorse non arrivano ancora ad oltre la metà dei poveri assoluti, cioè paradossalmente a chi ne avrebbe più bisogno.
Se questi interventi dipendono dal governo centrale ci sono poi altri provvedimenti che attengono più direttamente al governo del territorio. In molte grandi città sono state appena rinnovate le amministrazioni civiche. Anche i nuovi sindaci debbono immaginare il futuro delle comunità che amministrano, considerando proprio le contraddizioni che la pandemia ha aperto.
A Milano, in particolare, centrale è il tema della casa. Molte delle persone che abbiamo incontrato durante l’emergenza sanitaria si sono trovate costrette a scegliere se mangiare o pagare l’affitto, perché abitare nel capoluogo lombardo comporta costi che pesano in modo sproporzionato sui bilanci familiari. Va quindi sostenuto un poderoso investimento sull’edilizia popolare non solo per sistemare gli alloggi che sono già stati assegnati, ma anche per ristrutturare quelli che non possono essere messi in graduatoria perché troppo ammalorati, aumentando così il patrimonio di edilizia pubblica da offrire a chi non può permettersi una casa a prezzi di mercato. Ora proprio sulle case popolari dice di voler puntare il rieletto sindaco Giuseppe Sala, approfittando dei fondi del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza. Speriamo che riesca nel suo intento e che nei prossimi cinque anni possano spuntare sotto il cielo di Milano insieme a grattacieli per miliardari anche condomini sociali in cui studenti, pensionati, nuovi milanesi, famiglie del ceto medio sperimentino nuove forme di convivenza.
Sarebbe questo il solo modo per disinnescare quella tendenza alla polarizzazione che nel mondo ha già trasformato altre importanti metropoli in luoghi abitati solo da super ricchi e super poveri.
Se riusciremo a farlo, forse avremmo evitato l’errore peggiore che possiamo compiere, cioè, parafrasando Papa Francesco, sprecare la crisi dopo averne pagato un prezzo altissimo.
Luciano Gualzetti
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