A causa dello smart working e più ancora delle limitazioni anti Covid che hanno colpito in modo particolare il settore, bar e ristoranti acquistano una minore quantità di cibo.
Ciò, ovviamente, produce degli effetti su tutta la catena produttiva.
Per esempio, all’Ortomercato di Milano, la mattina restano sul bancone dei grossisti tonnellate di frutta e verdura che, rimaste invendute, vengono avviate al macero. In questo modo, proprio mentre anche nella capitale economica del Paese si allungano le code di persone che chiedono aiuto per mangiare, cresce contemporaneamente lo spreco alimentare.
E così in tempi di crisi economica e sociale, lo scandalo dello scarto contro il quale si era levata la voce di Papa Francesco diventa oggi un paradosso ancora più urticante. Ora proprio i richiami che il Pontefice aveva affidato all’enciclica Laudato sì, uscita mentre a Milano si svolgeva l’esposizione universale dedicata alla nutrizione, ci sollecitano a trovare soluzioni. Dando seguito, e se possibile, perfezionando le politiche e le pratiche che da quell’incontro internazionale erano scaturite.
Mi riferisco, ad esempio alla legge Gadda, come la si definisce, dal nome dell’onorevole Maria Chiara Gadda, che ebbe, proprio sulla spinta di Expo Milano 2015, la pazienza e l’intelligenza di riordinare le norme anti-spreco uscite nei decenni precedenti. Quel testo, approvato in maniera bipartisan dalle forze politiche, ha in questi anni effettivamente dato ottimi risultati. Grazie alle semplificazioni e agli incentivi introdotti, sono aumentate le aziende che preferiscono donare, invece che buttare, le cosiddette eccedenze alimentari, vale a dire il cibo che non viene venduto ed è escluso dal circuito commerciale pur essendo ancora adatto al consumo.
Complessivamente è quindi anche cresciuta la quantità di alimenti che è stata salvata ed è stata offerta, grazie ad associazioni, enti caritativi e realtà non profit a chi ne aveva bisogno.
Tuttavia quella legge sacrosanta, cinque anni dopo, avrebbe oggi bisogno di un tagliando. Andrebbe ad esempio considerato con maggiore attenzione non solo chi dona (le aziende) ma anche chi riceve quelle donazioni (il terzo settore).
Reimmettere nel circuito della solidarietà ciò che sarebbe sprecato ha infatti per chi lo fa un costo. Caritas Ambrosiana ne ha un’esperienza diretta. Per salvare dallo spreco la frutta e la verdura proprio dell’Ortomercato abbiamo potenziato il nostro sistema di recupero delle eccedenze alimentari. Il perno di quel sistema è stato affidato ad una cooperativa sociale che impiega manodopera svantaggiata.
Ogni mattina quei lavoratori si occupano di selezionare, tagliare, imbustare ed infine congelare insalata, finocchi, carote che non hanno trovato acquirenti. Trasformati in preparati per minestre, quelle buste vengono ridistribuite attraverso gli Empori della Solidarietà, dove le persone impoveritesi a causa del Covid, vengono a fare la spesa gratis e riescono in questo modo anche ad offrire ai loro figli una dieta più equilibrata.
Tutte queste operazioni (dal recupero, alla lavorazione al trasporto) e gli investimenti necessari per realizzarli (abbattitori di temperatura, furgoni con celle frigorifere) sono realizzati con un grande sforzo e non possono contare su particolari sostegni. Proprio questa esperienza concreta, ci spinge quindi a pensare che andrebbe con più coraggio incentivata quella che si definisce l’economia circolare. Non solo favorendo l’accesso al credito delle realtà non profit. Ma anche, perché no, dando loro la possibilità di reimmettere nel circuito commerciale almeno una parte di quello che trasformano, in modo da ricavare i margini per remunerare il lavoro che svolgono.
Nel mondo post Covid che vogliamo immaginare, sarebbe forse questa una delle tante strade possibili su cui provare ad incamminarsi.
Luciano Gualzetti
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