Come era prevedibile, dentro l’emergenza sanitaria si è gonfiata, ed alla fine è esplosa, la crisi sociale.
Già nelle prime settimane della quarantena ai centri di ascolto delle parrocchie abbiamo assistito a un aumento delle domande di aiuto.
A bussare alle nostre porte erano persone che pur non avendo un vero e proprio lavoro, erano fino ad allora riuscite ad andare avanti, dandosi in qualche modo da fare. Chi curando per qualche ora una persona anziana nel proprio quartiere. Chi rassettando casa o occupandosi dei figli della vicina. Chi facendo, spesso, tutte queste cose insieme, pur di portare a casa qualche centinaia di euro. Occupazioni informali cancellate con un colpo di spugna dal distanziamento sociale che il virus ci ha imposto. Insieme a loro sono arrivati camerieri, lavapiatti, addetti alle pulizie nei grandi alberghi, lavoratori veri e propri, ma senza un contratto, sommersi nell’enorme mercato nero su cui galleggia Milano e che il lockdown ha fatto drammaticamente emergere nella sua profondità ed estensione.
Ma dopo la Fase 1 e la Fase 2, la crisi sociale da Covid-19 ha avuto anche una Fase 3.
Ed è quella cui stiamo assistendo in questi giorni.
A mettersi in fila agli Empori della Solidarietà, magari non per fame, ma perché i pochi soldi che sono rimasti servono per pagare l’affitto, le bollette del gas e della luce, (ma in fondo fa poca differenza) ci sono anche operai ed impiegati con contratti regolari, che non hanno ancora ricevuto l’indennità di disoccupazione né a marzo e nemmeno ad aprile. Purtroppo non pare siano casi isolati. Gli operatori ne continuano a segnalare.
È una situazione davvero intollerabile.
Ci saremmo aspettati di dover sostenere chi, trovandosi ai margini del mercato del lavoro, sarebbe rimasto escluso dagli aiuti pubblici. Ma che rimanesse scoperto anche chi in teoria dovrebbe essere tutelato, fa pensare. È noto che per tante famiglie dell’ormai ex ceto medio, lo stipendio basta appena per arrivare a fine mese. Non potendo rimediare a una situazione che viene da lontano, sulla quale tra l’altro sarebbe utile riflettere per la ripartenza, si poteva almeno fare in modo di riconoscere velocemente quanto spettava loro di diritto.
La circostanza ci allarma anche in vista del futuro.
Se oltre alla cassa integrazione arriveranno in ritardo i soldi a fondo perduto o in prestito, promessi dal governo alle imprese, potremmo dover correre in soccorso anche dei datori di lavoro di quelle persone che abbiamo iniziato ad assistere: negozianti, albergatori, ristoratori che, senza liquidità, non riusciranno più ad alzare la saracinesca quando l’emergenza sanitaria sarà finita definitivamente.
Ci auguriamo davvero di non doverlo fare.
E non ovviamente perché abbiamo una qualche prevenzione nei confronti di quelle categorie. Ma perché vorrebbe dire che saremmo entrati nella Fase 4 della crisi. Uno scenario inquietante che spalancherebbe la porta, in una città-regione come Milano e la Lombardia piena di attività economiche, a chi deve riciclare denaro sporco.
La Direzione Investigativa Antimafia ha già fatto suonare il campanello di allarme.
I prestiti usurai sono da sempre il grimaldello con il quale le organizzazioni criminali si infiltrano nei territori.
Sarà quello il segnale da tenere sotto osservazione.
Luciano Gualzetti
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