Il reddito di cittadinanza abolirà la povertà come è stato promesso? Purtroppo è davvero difficile che vi riesca. Certamente, il provvedimento ha il merito di aver mobilitato una quantità di risorse incomparabilmente superiore alle precedenti misure. Tuttavia, lo strumento varato dal governo resta deficitario sotto molti punti di vista.
Innanzitutto si dimentica degli ultimi della fila. I beneficiari dovranno dimostrare di essere residenti in Italia da più di 10 anni, di cui gli ultimi due consecutivi. Questo limite escluderà le persone migranti presenti sul territorio ma produrrà anche il paradosso di estromettere i più poveri tra i poveri: un danno collaterale di cui faranno le spese i senza tetto stranieri ma anche italiani. Molti nostri connazionali, che finiti in strada hanno perso la residenza, non riusciranno ad ottenere dal Comune l’assegnazione di un domicilio fittizio nei tempi previsti. Ci saranno, poi, anche tanti italianissimi “barboni”, per usare una parola cruda, che quel domicilio formale non potranno nemmeno richiederlo, perché vivono, in uno di quei 7.800 Comuni (su 8mila) che ancora non si sono attrezzati per concederlo, nonostante la legge sulla residenza anagrafica glielo imponga dal lontano 1954. Un’evidente contraddizione, un’aporia, quella della doppia annualità, ad onore del vero, già presente nella misura precedente, il Rei (il reddito di inclusione), che il nuovo decreto legge non ha corretto. Secondo la Fiopsd, la Federazione italiana degli organismi per persone senza dimora, non percepirà il reddito di cittadinanza il 95% dei senza tetto, quindi la quasi totalità delle circa 60mila persone che, secondo l’ultimo censimento Istat del 2015, si lasciano vivere o morire per strada, nei dormitori, nei sottopassaggi.
Inoltre il reddito di cittadinanza, così come è stato concepito, scontenterà anche molti penultimi. La misura, per le modalità con le quali è calcolata la condizione economica di chi ne farà domanda, avvantaggerà i singoli a discapito delle famiglie più numerose, tra le quali l’incidenza della povertà è notoriamente più alta. Non solo. A causa di un approccio semplicistico alla povertà, saranno tagliati fuori tutti coloro che pur presentando sulla carta le caratteristiche per poter lavorare, non saranno in grado di farlo. Per esempio, una giovane donna disoccupata, sola, con due figli piccoli a carico, sarà indirizzata al centro per l’impiego, in ragione di criteri, come ad esempio l’età, accertati per via amministrativa. Allo sportello, il navigator le offrirà i posti di lavoro che riuscirà a trovare, ma non si preoccuperà di pensare a una soluzione per i bambini che dovranno rimanere a casa da soli quando lei si presenterà il primo giorno in ufficio o in azienda. L’impiegato non avrà neppure il compito di indicarle chi la potrebbe aiutare. Ciò accadrà perché i due canali previsti dalla norma, “il patto per il lavoro” e “il patto per l’inserimento sociale”, sui quali saranno avviati i beneficiari, sono due binari paralleli che quindi non si incrociano mai. Chi si occupa di povertà sa, invece, che in realtà si è poveri sempre per più di una ragione. E non sempre la mancanza di lavoro è il primo problema cui si può dare una risposta.
Approvato dal governo, ora il decreto contenente il reddito di cittadinanza dovrà essere convertito in legge dal Parlamento. Non resta che augurarsi che i deputati lo migliorino. Magari accogliendo alcune delle osservazioni che anche Caritas Italiana e altre realtà della società civile hanno fatto presente.
Luciano Gualzetti
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