Dieci anni di crisi economica hanno lasciato sul tappeto molte pesanti eredità. Una di queste è quella delle famiglie in dissesto finanziario. Sono commercianti, piccoli imprenditori, professionisti, esponenti del cosiddetto ceto medio impoverito. Hanno il volto del nostro vicino di casa, di quell’amico che non vediamo più da tempo, del parrocchiano sparito dai radar. Vivono per lo più nel Sud d’Italia. Ma non solo lì. Li troviamo anche al Nord. Persino nelle ricche province che costituiscono il territorio della Diocesi di Milano.
Secondo l’ultima ricerca della Consulta Nazionale Antiusura nel nostro Paese, le famiglie con i conti in fallimento nel decennio della crisi sono aumentate del 53,5%, passando da 1 milione e 277 mila a quasi due milioni (1.9159.433). Nello stesso periodo di tempo, in Lombardia, queste stesse famiglie, che tecnicamente si definiscono come sovra-indebitate, sono passate dal 3,3% al 5,7% per un totale di 150mila casi.
Tutti costoro sono potenziali vittime degli usurai. Raccontano molto bene quello che accade i volontari della Fondazione San Bernardino, voluta 15 anni fa dall’allora Arcivescovo di Milano, mons. Dionigi Tettamanzi, sulla scorta di esperienze nate in altre Diocesi in Italia proprio allo scopo di aiutare i cosiddetti sovra-indebitati prima che sia troppo tardi.
In genere a farsi avanti è un conoscente. A prima vista pare una persona affidabile, generosa. Soprattutto sembra l’unico in grado di tirarti fuori da guai. Poi però le cose cambiano. I toni delle sue richiese diventano sempre meno amichevoli. Ma quando ce ne si rende conto è quasi sempre troppo tardi.
Negli ultimi anni alcune inchieste della Magistratura stanno rivelando una realtà ancora più drammatica. Anche al Nord chi presta denaro facile è spesso un affiliato ai clan malavitosi, in particolare all‘ndrangheta, l’unica a disporre di ingenti risorse in una generale crisi di liquidità.
All’imprenditore e al commerciante disperati questo “soccorso” pare la sola via d’uscita per salvare il salvabile. In realtà succede esattamente il contrario. L’impresa e il negozio che si volevano preservare dalla bancarotta, finiscono nelle mani del boss ‘ndranghetista.
In questo modo, in maniera sotterranea, sfruttando un momento di particolare debolezza, la malavita infiltra l’economia sana, in un intreccio perverso che finisce con l’inquinare il tessuto sociale, rendendolo tossico e quindi sempre meno ospitale per le persone oneste che voglio stare alle regole e non cedere ai ricatti.
È un rischio, evidentemente, enorme che non possiamo permetterci di correre.
Per questa ragione l’Arcivescovo di Milano Mario Delpini ha lanciato un’iniziativa inusitata, che non ha precedenti almeno recenti nella storia della Chiesa milanese. All’inizio dell’anno il pastore della Chiesa di Milano ha scritto una lettera ai suoi parroci, avvertendoli in maniera molto circostanziata del pericolo e invitandoli a farvi argine. Recentemente il nostro Vescovo è tornato a spiegare il senso di quella sua iniziativa ribadendola.
La Chiesa ambrosiana è capillarmente presente nel territorio. Oltre mille parroci, nelle parrocchie, vivono in mezzo alla gente, condividendo con loro gioie e dolori della vita.
I sacerdoti ambrosiani, ha detto l’Arcivescovo Delpini a chi gli domandava le ragioni di quella sua decisione, «non sanno tutto, ma sono se non per tutti per molti un punto di riferimento e soprattutto sono capaci di ascoltare».
Ecco, esercitando proprio questa capacità di ascolto, raccogliendo le confidenze di chi si trova in difficoltà, proprio i preti sono in grado di cogliere i primi segnali di quelle relazioni pericolose e consigliare percorsi differenti prima che si imbocchino vicoli ciechi, avvalendosi degli strumenti competenti rappresentati dalle Caritas Lombarde e la Fondazione San Bernardino della Conferenza Episcopale Lombarda.
Il loro ascolto discreto e la loro collaborazione con le istituzioni possono essere l’antidoto migliore al veleno mafioso sempre più pervasivo.
Luciano Gualzetti
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