I corridoi umanitari sono un modo sicuro per dare protezione a chi scappa da guerre e persecuzioni. Offrire soccorso a chi si trova in una condizione di pericolo recandosi nei luoghi dai quali fugge, se è possibile, o almeno nei primi paesi di approdo, evita ai richiedenti asilo molte spiacevoli situazioni: attraversare il deserto, con il rischio di essere rapiti da bande di predoni; affidare la propria vita alla sorte su qualche carretta del mare dopo aver pagato tra l’altro a caro prezzo il passaggio correndo, nel frattempo, il rischio di finire in qualche carcere libico.
Ma non solo. La sperimentazione condotta da alcune diocesi italiane, tra le quali anche quella di Milano, dimostra che i corridoi umanitari sono anche uno strumento che favorisce l’accoglienza e la convivenza. Anzi, di più, sono un’occasione che permette alle comunità di riflettere su loro stesse.
Benché i numeri siano ancora da esperimento, i primi risultati sono molto incoraggianti, secondo il primo rapporto realizzato da Caritas Italiana e presentato all’inizio di aprile all’Università Cattolica.
Il programma umanitario, avviato in virtù di un protocollo d’intesa, sottoscritto nel 2017, tra la Cei e i ministeri degli Affari Esteri e dell’Interno, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, ha consentito fino ad ora l’arrivo in sicurezza in Italia di 500 richiedenti protezione internazionale che vivevano nei campi profughi dell’Etiopia, della Giordania e in Turchia. Individuati tra i più vulnerabili, i beneficiari, tra i quali anche 200 minori per la metà sotto i 10 anni, una volta giunti in Italia, hanno trovato accoglienza nelle parrocchie di 47 Caritas diocesane grazie al coinvolgimento di 574 volontari, 58 famiglie tutor, 101 operatori che a loro volta hanno attivato comuni, scuole, società civile.
A due anni dai primi ingressi (il programma terminerà ufficialmente a fine gennaio 2020), il 97% dei richiedenti asilo giunti attraverso il corridoio umanitario ha ottenuto lo status di rifugiato e il 3% la protezione sussidiaria; tutti i minori in età scolare sono stati inseriti a scuola; il 30% dei beneficiari ha intrapreso corsi di formazione professionale e 24 beneficiari hanno già trovato un impiego.
Grazie, quindi, alla mobilitazione generosa di tanti cittadini, l’accoglienza è stata offerta senza tensioni e con frutto, favorendo effettivamente l’inserimento degli ospiti.
Detto ciò, solo chi è in mala fede può pensare che i corridoi umanitari siano la soluzione al problema migratorio, un fenomeno complesso alimentato da tante e diverse ragioni (la guerra, il cambiamento climatico, il divario nella distribuzione delle ricchezze tra nord e sud del mondo) e che quindi avrebbe bisogno di tanti altri strumenti, come ad esempio la riapertura delle quote per i migranti economici.
Tuttavia creare canali diretti tra paesi di partenza e di approdo può essere un modo di rispondere almeno al grido di aiuto di chi è a rischio della propria vita. Un modo un poco più decente di quanto si è visto fare fino ad ora, coi i porti chiusi, i fili spinati alle frontiere, i vertici europei miseramente falliti nell’incapacità di decidere chi dovesse farsi carico di qualche centinaia di persone alla deriva.
«Mettete ponti nei porti» ha implorato di ritorno dal Marocco papa Francesco visibilmente commosso mentre raccontava di aver visto un video che mostrava le lame in cima alla barriera anti-immigrati nell’enclave spagnola nel paese nordafricano.
Ecco i corridoi umanitari sono la prima (ma non la sola) pietra da gettare per costruire quei ponti.
Luciano Gualzetti
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