Per evitare gli sgomberi, i rom hanno imparato a nascondersi. Abbandonati i grandi campi, si sono distribuiti sul territorio, occupando le aree marginali. Li si trova sotto i ponti, lungo le autostrade, sulle alzaie dei navigli, accanto ai binari della ferrovia, ai bordi di un campo agricolo, accanto a una discarica. Si riuniscono in piccoli gruppi di 15 massimo 30 persone, appartenenti alla stessa famiglia o a famiglie imparentate tra loro.
In un paziente lavoro di indagine l’unità mobile di Caritas Ambrosiana ne ha contati 2.700 suddivisi in 134 insediamenti. Le condizioni in cui vivono sono ben al di sotto di ogni livello di decenza umana. Non hanno acqua né luce. Quando piove, finiscono in mezzo al fango tra i topi. E devono pregare il Signore che il vento non si porti via il telo di cellophane che gli fa da tetto. O il fiume non esondi.
Gli autori della ricerca, Patrizia Farina e Riccardo Pirovano dell’Università Bicocca che hanno rielaborato i dati raccolti dai nostri operatori, hanno definito la polverizzazione dei campi «una strategia di sopravvivenza», adottata dagli stessi rom. Poiché i grossi accampamenti suscitano allarme sociale, meglio dividersi, disperdersi, nella speranza di non dare troppo nell’occhio ed essere lasciati in pace. Non a caso, sottolineano i ricercatori, il 50% degli insediamenti più piccoli (con meno di 15 persone) non ha mai subito l’intervento della forza pubblica nei tre anni di indagine (2015/2017).
Che l’invisibilità per queste persone non sia più una condizione involontaria, subita, ma una scelta consapevole dovrebbe metterci a disagio. Lontano dagli occhi non può volere dire lontano dal cuore e dalla nostra capacità di capire e di comprendere. Far perdere le tracce non può essere una soluzione per loro. Tanto meno può esserla per noi. La luce che abbiamo acceso su queste situazioni così drammatiche deve aiutarci a trovare delle risposte convincenti.
Dobbiamo allora capire chi sono i rom che vivono negli insediamenti spontanei di Milano.
Prima di tutto, la ricerca di dice quello che non sono. Non sono nomadi. Per la stragrande maggioranza hanno cittadinanza rumena, da generazioni hanno smesso la pratica del nomadismo nel loro paese e come i loro concittadini vengono in Italia per migliorare le proprie condizioni di vita.
Vivono di elemosina (attività prevalente fra le donne) e di attività informali e a volte illegali (commercio del ferro, vendita di vestiti, addetti nelle imprese di pulizia). Qualche volta di piccola criminalità.
Se le cose stanno così, con loro va ristabilito un patto che sia fondato sull’emersione dall’illegalità (condizione imprescindibile) e l’inserimento nella politiche per la casa: alloggi veri e non container, campi di transito e così via, in nome di una presunta diversità che non c’è e finisce solo per ghettizzarli.
Rispetto delle regole e solidarietà: le due cose vanno insieme. Per esempio, nessuna corsia preferenziale nell’accesso alle graduatorie degli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Ma nemmeno discriminazione.
Come per altre categorie di persone svantaggiate, dovremmo allora partire dal bisogno che esprimono, prima che da quello che presumiamo che siano. Prima o dopo non in base all’etnia, alla religione, alle proprie convinzioni. Ma in base alle necessità. Come vuole non il Vangelo ma più modestamente la carta dei nostri diritti: la Costituzione.
Luciano Gualzetti
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