Abbiamo salutato l’anno appena finito con la Marcia della Pace a Sotto il Monte (BG), ricordando il 50esimo anniversario della prima Giornata Mondiale della Pace istituita dal beato Papa Paolo VI che si rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «É finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». Ritornando nel paese natale di papa Giovanni XXIII viene da chiedersi se sia ancora attuale il titolo di quella prima grande mobilitazione: “La promozione dei diritti dell’uomo, cammino verso la pace” evidentemente ispirata all’enciclica Pacem in terris scritta dal pontefice oggi venerato come santo.
Ebbene, proprio nella sua prima esortazione apostolica, l’Evangelii Gaudium, il Santo Padre venuto dalla fine del mondo per guidare la Chiesa nel nuovo millennio, papa Francesco, ci ricorda che se non si risolvono «i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema».
E questa prospettiva non riguarda solo gli scenari internazionali e dei potenti ma le relazioni di pace e di sicurezza nelle nostre case, nelle strade dei nostri quartieri, nelle nostre comunità. Solo con relazioni basate sul riconoscimento integrale della persona, dell’altro come interlocutore e non come avversario, della responsabilità verso tutti e ciascuno, che non abbandona nessuno, che possiamo costruire comunità sicure e di pacifica convivenza. Perché come il Papa, sempre nello stesso testo, sottolinea «quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità».
Anche Papa Giovanni XXIII, che aveva come oggi il problema del disarmo nucleare, nell’enciclica Pacem in terris chiede, perché questo si possa realizzare, un disarmo del cuore affermando che il vero nemico è il pensiero che ammette l’uso delle armi e della violenza: «…l’arresto agli armamenti a scopi bellici, la loro effettiva riduzione, e, a maggior ragione, la loro eliminazione sono impossibili o quasi, se nello stesso tempo non si procedesse ad un disarmo integrale: se cioè non si smontano anche gli spiriti, adoprandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica.» (Pacem in Terris n.61)
A 50 anni di distanza, dunque, due pontefici richiamano alle nostre coscienze il legame indissolubile tra pace e giustizia, pace e lotta alle disuguaglianze, pace e promozione dei diritti.
Per raggiungere una meta così alta e tanto autorevolmente richiamata, per di più in un arco di tempo così vasto, verrebbe da domandarsi da dove iniziare il cammino.
Forse si potrebbe iniziare ricordandoci che nel nostro Paese abbiamo realizzato una grande esperienza, dapprima minoritaria poi via via sempre più condivisa, in cui entrambi questi valori, la pace e diritti dei più deboli, sono stati felicemente coniugati. Quell’esperienza è stata il servizio civile, come obiezione di coscienza al servizio militare.
Le Caritas diocesane hanno attuato la difesa della Patria richiesta dalla Costituzione e dallo Stato, in una grande scuola di vita. Proponendo strade alternative alla soluzione dei conflitti e delle fratture tra le persone e i gruppi sociali. Mettendosi in mezzo senza armi, con coraggio, per promuovere il riscatto sociale delle persone invisibili e nelle periferie esistenziali. Questa esperienza ha rappresentato per molti giovani una grande palestra per imparare a vedere il mondo con gli occhi dei più poveri.
In Caritas Ambrosiana, che nel 1977, ospitò con la Caritas della Diocesi di Genova, i primi obiettori distaccati dal Ministero della Difesa, quell’impegno produsse molteplici frutti: tra quelle migliaia di giovani che prestarono servizio nei centri di accoglienza per senza tetto, nelle mense, nelle comunità per minori, nei campi rom, nelle strutture di accoglienza per richiedenti asilo, alcuni divennero sacerdoti o religiosi, altri partirono per i paesi del Sud del Mondo come cooperatori internazionali, altri ancora scelsero di orientare al sociale le loro carriere professionali, altri infine rimasero come volontari. Ma soprattutto tutti, in ogni caso, decidendo di difendere la Patria con altri mezzi, ovvero impegnandosi in un servizio reso per l’inclusione dei più poveri, ebbero almeno l’opportunità di scorgere la stretta parentela che teneva e tiene unite le due parole: pace e giustizia.
Con l’abolizione della leva obbligatoria, nel 2001, e la nascita del servizio civile su base volontaria, quel legame è andato affievolendosi, fino a scomparire del tutto. In particolare oggi nessun giovane sa che potrà esercitare ancora il diritto all’obiezione di coscienza in caso di chiamata alle armi generalizzata in caso (Dio non voglia) di guerra. Forse varrebbe la pena, pur nel nuovo contesto, provare a recuperare quella grande esperienza di formazione alla non violenza e al servizio alla comunità che rimane nel DNA della Caritas e nella Chiesa Italiana.
La nuova fase, introdotta dalla legge del 2016, che almeno teoricamente riconosce l’universalità del servizio civile, o le proposte di ripristinarne addirittura l’obbligatorietà di un servizio civile nazionale, potrebbero essere una interessante opportunità. Per riannodare quel filo rosso che attraversa mezzo secolo di storia e pensiero della Chiesa.
Luciano Gualzetti
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