Da tempo nel nostro Paese tira una brutta aria per coloro che aiutano i migranti. Prima si è cercato di screditare il mondo delle cooperative che si occupano dell’accoglienza. Ora si tenta di attribuire genericamente alle ONG impegnate nei soccorsi in mare, improbabili complicità con le organizzazioni criminali, proprio mentre suppliscono alle istituzioni, in particolare da quando le navi della marina militare non possono più avvicinarsi alle coste africane per un limite auto-definito della missione europea Frontex. Una vergognosa operazione di generalizzazione che proietta ombre su un mondo costituito da 16.000 enti che operano in Italia e all’estero nella cooperazione internazionale.
Questo mutamento nell’opinione pubblica ha un’origine culturale precisa. Prima si è cominciato a considerare i poveri una minaccia al decoro; poi si è stabilita l’odiosa equazione “migrante uguale clandestino”, cioè fuori legge a prescindere. E alla fine di questa parabola, si è ritenuto complice di una non meglio definita colpa, chi aiuta quelle persone a emanciparsi dal loro stato di svantaggio. Dalla criminalizzazione della povertà si è passati alla criminalizzazione della solidarietà. Per cui oggi pare che non vi sia offesa peggiore che dare a qualcuno del “buonista”.
Detto questo, non si può gettare la spugna, ritirarsi in un atteggiamento lamentoso, o peggio, rinchiudersi in un complice silenzio. Bisogna, piuttosto, continuare a operare con concretezza e qualità e attraverso le opere, pazientemente, a con-vincere.
Il punto, naturalmente, è come farlo.
Le manifestazioni di piazza, come quella che si è svolta a Milano sull’accoglienza lo scorso 20 maggio, possono essere utili. A patto, però, che non si trasformino nell’ennesima sterile contrapposizione tra “pro e contro immigrati” tra “buoni” e “cattivi”: i muri non servono a nulla né quelli contro di loro, coloro che chiedono ospitalità, tanto meno quelli tra noi, la comunità chiamata ad ospitarli.
Da quando è nata Caritas ha scelto uno metodo: la pedagogia dei fatti. E lo ha pazientemente applicato anche in questa circostanza.
Mentre nei giorni scorsi divampava l’odiosa polemica sui “taxi del mare”, si concludeva la prima missione congiunta tra Caritas e Comunità di Sant’Egidio per l’apertura del corridoio umanitario tra il nostro Paese e l’Etiopia: il paese africano con il maggiore numero di profughi. Il progetto consentirà a profughi eritrei, somali, sud sudanesi di arrivare direttamente a casa delle famiglie o negli appartamenti delle parrocchie che hanno aderito alla rete di accoglienza diffusa, presente su tutto il territorio nazionale. I richiedenti asilo, che hanno già ottenuto il riconoscimento da parte dell’Alto commissariato della Nazioni unite per i rifugiati, arriveranno nel nostro Paese con normali voli di linea, senza dover pagare, prima, i trafficanti sudanesi per passare il deserto e poi gli scafisti libici per attraversare il Mediterraneo; senza impegnare le capitanerie di porto, le navi della marina militare, o delle benemerite ONG nelle operazioni di soccorso.
Il progetto, finanziato dalla Conferenza episcopale italiana con i fondi dell’8 per mille, è una goccia nell’oceano: è vero. Ma ha il merito di provocare, attraverso i fatti appunto, una riflessione: per gestire meglio i flussi occorre aprire canali regolari di immigrazione.
È questo il modo migliore sotto tutti i punti di vista. L’alternativa l’abbiamo già sperimentata.
E la realtà ci ha dimostrato che non funziona.
Luciano Gualzetti
Leggi tutto l'inserto di Farsi Prossimo sul Segno di Giugno 2017