
Dall’Incarnazione del Figlio di Dio all’umanesimo della cura
Il tempo che porta a Natale è tempo privilegiato per ritornare su quel mistero della fede cristiana che abbiamo imparato dai tempi del catechismo a chiamare con termine di “incarnazione”, che ci ricorda che il Dio in cui crediamo è un Dio che ha assunto la nostra umanità e che lo ha fatto in un modo particolare. Non è diventato uomo in un modo qualsiasi, ma – come recita un famoso inno presente nella lettera che Paolo scrisse ai cristiani di Filippi – “svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini” (2,7).
Capite, l’identità del Dio cristiano è quella di chi non ha potuto sopportare alcuna distanza con l’uomo. Invece che separarsi (pensate che “santo” in ebraico significa proprio “separato”) ha fatto di tutto per instaurare una inaudita comunione tra noi e lui. E quando il peccato ci ha allontanati da Dio, questo ha paradossalmente scatenato il suo desiderio nei nostri confronti, al punto che ha fatto di tutto per abbattere questa distanza.
Come operatori Caritas è indispensabile tenere viva questa dimensione un po’ contemplativa, questo sguardo su Gesù. Diversamente rischieremmo un giorno di trovarci a chiederci il perchè dello stare accanto all’uomo, a qualsiasi uomo, ferito dalla vita. Dimenticare questo sguardo alla ricerca di competenze apparentemente più capaci di farci trovare soluzioni ai bisogni di quanti affollano le nostre sacrestie e i nostri sagrati significherebbe esporci al rischio di smarrire non solo il perchè, ma anche il come di questo prenderci cura.
Il V Convegno della Chiesa Italiana che si è appena svolto a Firenze aveva come titolo “In Cristo Gesù un nuovo umanesimo”, a dire che solo guardando a Gesù e alla sua umanità impariamo a pensare all’uomo in modo giusto; all’uomo e alle sue relazioni costitutive: quella con Dio, quella con gli altri uomini, quella con il creato.
Porci fuori dalla prospettiva che ci offre l’umanità di Gesù significa smarrire quelle tre consapevolezze che Papa Francesco denuncia nell’enciclica Laudato si’: “la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza, di un futuro condiviso da tutti” (202).
Ed è evidente a tutti che, in assenza di questi sguardi, sarà impossibile pensare ad un cammino dell’umanità verso un’umanità migliore.
Mancando queste consapevolezze, dove trovare la base per guardare al pianeta come “casa comune” da difendere, da custodire, affinchè nessuno se ne appropri in modo rapace?
Senza queste coscienze per quale motivo dovremmo pensare ad ogni creatura come in possesso di un valore proprio e ogni essere umano come meritevole della stessa medesima cura?
Ma torniamo alle parole di san Paolo ai Filippesi. Gli esperti hanno individuato che il cuore del ragionamento sta in una parola greca che in italiano viene tradotta con “svuotamento” e che spiega come l’incarnazione altro non è che la decisione di Dio di volere rendersi prossimo agli uomini attraverso il Figlio Gesù, di mettersi in rapporto con chi è abissalmente distante, di abbassarsi fino a lui per innalzarlo fino a Sè. Come un papà, una mamma quando si accovacciano per prendere in braccio il proprio piccolo. Uno “svuotamento” che un po’ ci inquieta, ma anche ci rasserena: ci inquieta, in quanto ci provoca a metterci continuamente in discussione nel nostro modo di operare, di prenderci cura degli altri; ma insieme ci consola, dal momento che parla di un Dio che non ha cambiato le sorti della storia dall’alto della sua potenza, ma dal basso della sua debolezza, una debolezza che appartiene ad ogni uomo, a ciascuno di noi.
Alla luce del riaprirsi di una ennesima stagione di stragi terroristiche queste considerazioni forse non ci danno ricette di soluzioni, ma certamente ci offrono uno sguardo, una sapienza, una cultura capaci di non farci ripiegare su atteggiamenti spaventati e vendicativi; uno sguardo, una sapienza, una cultura in grado di offrire, a quanti abitiamo questo tempo affascinante e minaccioso, sentieri di autentico umanesimo.
Don Roberto Davanzo
Leggi tutto l'inserto di Farsi Prossimo sul Segno di dicembre 2015
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