Sono arrivati con il truck, cioè nascosti nel sottofondo di un camion. Fortunati e prudenti: partendo dalla Turchia, è meno probabile soffocare in un Tir, che annegare nel mare inclemente d’inverno.
Ieri pomeriggio – entrati in Italia dalla frontiera con la Slovenia, passati dal Centro di aiuto del Comune di Milano per i primi accertamenti, capitati chissà come nella sede di Caritas Ambrosiana – dormivano esausti sulle sedie della sala riunioni. Padre, madre, tre bimbi tra 2 e 11 anni: con loro le fotocopie dei documenti, gli originali sono rimasti a casa, a Islamabad, Pakistan, 84 ore di viaggio e 7 mila chilometri di distanza.
Ora si cercherà di capire chi sono, perché sono fuggiti, se e come sia possibile ospitarli e regolarizzarli. Intanto, grazie a una parrocchia, hanno rimediato una settimana di accoglienza dignitosa e calorosa.
Ma la loro storia, una storia come tante, in cui ci siamo imbattuti proprio nei giorni della vergogna nazionale ̶ dopo Cutro e dopo l’ancora più inaccettabile respingimento verso la Libia di una barca con 47 esseri umani a bordo, finita per rovesciarsi in mare al largo di Bengasi, solo 17 i superstiti ̶, la loro storia racconta meglio di tante analisi che gestire con le logiche del consenso elettorale un fenomeno di portata epocale non solo è irrazionale. È anche indegno. E persino autolesionista.
Mentre autorevoli centri di ricerca attestano che al sistema produttivo italiano mancano centinaia di migliaia di lavoratori (noi lo diciamo da tempo, conoscendo da vicino alcune filiere professionali della cura, ma anche altri settori), il Paese, o Nazione che dir si voglia, è prigioniero di carenze di personale e procedimenti burocratici che sembrano studiati ad arte per gonfiare i tempi di esame dei documenti e dei titoli di permanenza degli stranieri che in mille modi raggiungono lo Stivale. Così si gonfia anche l’area dell’irregolarità: serbatoio di attrito sociale, che diventa maneggevole strumento di propaganda politica.
E poi c’è la questione della blindatura dei confini. È irrazionale pensare che essi possano venire indiscriminatamente aperti: uno Stato e un’Unione di Stati hanno il dovere di governare, ordinare e distribuire i flussi di ingresso. Ma un conto è regolare, un altro invocare le regole per omettere di salvare: è inumano e colpevole, ogni apparato che induce i suoi operatori a trincerare se stessi e le proprie coscienze dietro un codicillo normativo mentre uomini, donne e bambini rischiano la vita. E soprattutto, le regole più sono vetuste, rigide e proibizioniste, come quelle che sovrintendono al governo delle migrazioni in Europa e in Italia, più alimentano traffici illegali, catene criminali, violazioni disordinate e disperate.
Negli Stati Uniti di un secolo fa si consumava alcol anche quando era vietato: a lungo se ne sono giovate le mafie.
Sembra che la storia abbia poco da insegnare.
Ora non staremo a ricordare lo strumento dello sponsor, introdotto nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano e prontamente cassato dalla Bossi-Fini nel 2002: da allora, le possibilità di ingresso legale in Italia si sono drasticamente ridotte.
Né staremo a ripetere come funzionano i corridoi umanitari che da anni Caritas, in accordo con vari soggetti (tra cui il governo nazionale!), organizza per far arrivare in Italia in condizioni di sicurezza persone e famiglie selezionate, nei campi profughi di vari Paesi del mondo, in base a criteri di vulnerabilità.
Ci preme ribadire che quelle esperienze dimostrano che regolare le migrazioni è possibile. Senza condannare una famiglia a inabissarsi nel sottofondo di un Tir, o nel sottocoperta di un barchino. Senza fare di circolari apparentemente neutre altrettanti strumenti di morte. Senza offrire pretesti alla pigrizia morale di chi volta la faccia davanti al prossimo che grida aiuto.
Senza dimenticare che un Paese vecchio ha bisogno di braccia, di menti, di cuori giovani. Senza smarrire le radici, le ragioni, i principi della propria civiltà. E della propria umanità.
Luciano Gualzetti
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