Sono stati rimossi. Una, due, tre volte. Tra dicembre e febbraio. E puntualmente, una due tre volte, hanno fatto ritorno. Sugli stessi marciapiedi degli stessi tunnel malsani. Lungo le strade che sottopassano i binari della Stazione Centrale, dense di rumori e di fumi nocivi. Ma per loro, evidentemente, unica alternativa accettabile al dormire sotto le stelle, nelle gelide notti d’inverno.
L’ostinazione di alcune decine di homeless ha fatto ripartire, a Milano, la giostra degli sgomberi che rischiano di essere inutili. Consegnando a istituzioni e operatori sociali un’evidenza spesso sottovalutata: il loro operato, anche quello meglio intenzionato e strutturato, non ha i crismi dell’onnipotenza, e deve mettere in conto la libertà del potenziale beneficiario delle cure, anche quando essa sconfina nel rifiuto, nell’irrazionale, persino nell’autolesionismo.
Peraltro, si deve riconoscere che il Comune di Milano non ha, nell’occasione, agito con modalità indifferenti alla dignità di persone pure marginali. Negli ultimi anni Palazzo Marino ha innovato il suo approccio al mondo dell’homelessness, e anche nell’occasione è stata offerto un luogo di accoglienza alternativo e sono stati mobilitati assistenti sociali e mediatori linguistici per cercare un dialogo preventivo con i “resistenti”.
Evidentemente, però, si deve fare ancora di più e ancora meglio. Perché non esistono soluzioni standard e definitive ai problemi, quando si ha di fronte un “popolo” variegato come quello della strada. Marginali “cronici”, sospettosi di ogni rapporto con le autorità pubbliche, psichiatrici, stranieri irregolari… le storie e le condizioni di vita sono differenti, e vanno avvicinate con strategie differenti.
Anzitutto, servirebbe un nuovo censimento, puntuale (l’ultimo risale al 2018), per appurare chi, oggi, a Milano, in determinati luoghi, “abita” la strada. Fondamentale appare anche l’intensificazione del lavoro di strada: quello delle unità mobili “generaliste”, ma soprattutto quello condotto da équipe multidisciplinari, in rete con professionisti della sanità.
Proprio le istituzioni sanitarie andrebbero poi sollecitate, in particolare quelle che si occupano di dipendenze e disagio psichico, a “uscire” dalle strutture, superando i rimpalli di competenze cui troppo spesso si assiste, che finiscono per privare molte persone del diritto alla cura.
La Milano capace di innovazione deve inoltre rilanciare il modello Housing First. In città si sperimenta da alcuni anni, ma gli appartamenti disponibili sono ancora troppo pochi e l’investimento limitato. È tempo di rendere ordinario e centrale tale approccio, convincendosi che le strutture collettive di bassa soglia, pur necessarie, non sono adatte a tutti. È proprio il modello collettivo, infatti, a limitare le possibilità di accesso (dipendenze e disagio psichico sono spesso incompatibili con le regole delle strutture di accoglienza), o a trovare l’opposizione delle stesse persone in strada.
Infine c’è il grande tema, rimosso, della irregolarità di molte persone che stanno in strada. Si fatica ad ammetterlo, ma le politiche e le attuali leggi sull’immigrazione producono marginalità e rendono molti “invisibili sociali” e del diritto. La giostra degli sgomberi finisce per essere uno sterile corollario di tale fallimento.
Luciano Gualzetti
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