It’s a dream, è un sogno. Non ha cessato di ripeterlo, per l’intera prima giornata dopo il suo sbarco a Malpensa, la studentessa di origine burundese che il progetto “Unicore – Corridoi universitari” ha individuato e selezionato in un campo rifugiati del Mozambico. Con il suo medesimo entusiasmo, anche lei quasi incredula, era giunta a Milano pochi giorni prima una giovane rifugiata congolese, da anni residente in un campo profughi del Congo.
It’s a dream: la vita che si ribalta, libri che si aprono, progetti che prendono forma, un futuro che si spalanca denso di promesse, a valle di un passato costellato di sofferenze.
La sorte delle due giovani accolte poco dopo la metà di novembre da Caritas Ambrosiana, per essere inserite in un biennio di studi all’Università Bocconi (e un loro collega è atteso nelle prossime settimane dal Malawi), è stata condivisa da una cinquantina di rifugiati provenienti da diversi paesi africani nell’ambito di Unicore, e destinati a studiare in 33 atenei del nostro paese. Il progetto è promosso da Unhcr Italia e Caritas Italiana (che coordina l’impegno di decine di Caritas diocesane), insieme a
Ministero degli esteri e della cooperazione internazionale,
Diaconia Valdese,
Centro Astalli,
Gandhi Charity e a una vasta rete di partner locali. Avviato nel 2019, ha reso disponibili oltre 140 borse di studio, appannaggio di giovani rifugiati che vengono selezionati grazie a bandi e test, sulla base del merito accademico e delle motivazioni, e preparati alla lingua italiana da corsi che precedono il volo verso le nostre città.
I “corridoi universitari” sono una declinazione specifica dei “corridoi umanitari”, strumento che da almeno un triennio vede impegnata la rete Caritas, insieme ad altri soggetti, istituzionali, ecclesiali, del terzo settore, con l’obiettivo di costruire percorsi di migrazione, e di inclusione sociale e lavorativa nel tessuto dei territori italiani, che siano legali, sicuri, programmabili e produttivi, sia per l’individuo che ne fruisce, sia per la comunità che lo accoglie. L’ultimo “corridoio” è stato organizzato, nell’ultima decade di novembre, a favore di decine di rifugiati afgani costretti a vivere da oltre un anno, dopo il ritorno al potere dei Talebani, in campi profughi del Pakistan. I beneficiari vengono scelti perché segnati da elementi di ulteriore vulnerabilità (sanitaria, sociale, psicologica), oltre al fatto di essere stati costretti ad abbandonare il loro paese e le loro comunità. Sono persone provate da una molteplicità di eventi avversi. Che non li avrebbero peraltro scoraggiati dal tentare il viaggio verso l’occidente con mezzi precari, insicuri, affidati per lunghe tratte a filiere criminali. I corridoi li hanno sottratti a questo abbraccio pericoloso e illegale, offrendo un’alternativa sostenibile per tutti.
È evidente che i corridoi, riservati a numeri significativi ma tutto sommato ristretti di particolari categorie di migranti (per lo più i rifugiati e i titolari di forme di protezione internazionale), non possono costituire, da soli, lo strumento di gestione del complesso fenomeno delle migrazioni. È altrettanto evidente che indicano percorsi praticabili, dignitosi, integrabili nel ventaglio di misure cui devono tendere politiche capaci di coniugare realismo e umanità, legalità e solidarietà. Le soluzioni non sono semplici, ma non vi è nulla di impossibile. A patto di volersi davvero cimentare con le sofferenze e i diritti di gran parte dell’umanità. Sottraendole alla perenne, ossessiva, cinica fabbrica del consenso elettorale e politico.
Luciano Gualzetti
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