Siriani, ma non solo
Dopo numerose interviste sul tema è opportuno e doveroso tirare il fiato e dedicarsi ad una riflessione un po' più ampia e pacata. La questione riguarda quella che giornalisticamente viene definita "emergenza siriani", l'ennesima dopo quella susseguente alla primavera araba (eravamo nel 2011, ricordate), dopo quella ancora in corso degli sbarchi a Lampedusa e sulle coste siciliane. La differenza rispetto alle altre mi pare possa riassumersi in due elementi: la dimensione familiare e la temporaneità.
I siriani sono arrivati pressoché tutti con mogli e figli, spesso piccolissimi, spesso ancora nel grembo delle mamme: segno di un esodo da disperazione che ti fa mettere in gioco le risorse accumulate nella vita con la speranza di potersi rifare una vita. E poi la temporaneità: la stragrande maggioranza di quanti abbiamo accolto e intercettato non aveva e non ha alcuna intenzione di stabilirsi in Italia. Aveva come meta altri Paesi del nord Europa. Li abbiamo accolti, ospitati, rivestiti, rifocillati, per poi vederli partire dopo pochissimi giorni di soggiorno milanese.
Proprio nei giorni in cui gli arrivi rischiavano di trasformare la Stazione Centrale di Milano in un bivacco dell’abbruttimento, ho avuto la possibilità di visitare un piccolo ambulatorio medico che abbiamo finanziato come Caritas Ambrosiana nella città giordana di Al Mafraq, dieci chilometri dal confine con la Siria, altrettanti da uno dei più grandi campi dell'ONU per i profughi siriani di serie B, quelli, tanto per intenderci, che nemmeno hanno i quattrini per affrontare il viaggio per l'Europa.
Già, perché noi ci crediamo alla necessità di "aiutarli a casa loro" al punto che lo abbiamo sempre fatto, senza troppo sbandierarlo, ma anche senza dimenticare che quando poi la gente non si ferma "a casa sua" e arriva sulle nostre coste, nelle nostre stazioni, nelle nostre strade, ... gridare che non bisognava farli partire, che se arrivano in Sicilia non bisogna farli venire in Lombardia che ne abbiamo già di problemi e di disoccupati, non sai bene se è ingenuità o se non si tratta addirittura di bestemmia. Li aiutiamo a casa loro, ma se ti arrivano in casa allora ti devi rimboccare le maniche per trattarli con dignità e per garantire la sicurezza dei cittadini italiani. Il resto sono solo disoneste chiacchiere elettorali!
Ma anche questo non basta, almeno non può bastare ad una Caritas come la nostra. Intendo dire che se anche dovessimo riuscire a gestire una accoglienza di emergenza, se anche dovessimo sostenere il lavoro delle Caritas dei Paesi da cui provengono questi flussi di immigrazione, non ci sarà mai lecito dimenticare che il fine ultimo del nostro lavoro e della nostra operatività è sempre quello di favorire nella cittadinanza una crescita culturale, una sempre più precisa consapevolezza di quanto accade accanto a noi e lontano da noi, perché maturi uno sguardo e un giudizio di saggezza illuminata. D’altronde, se lo statuto affida a Caritas la responsabilità di coordinare gli interventi ecclesiali in occasione delle emergenze nazionali ed internazionali, lo fa con l’intenzione di offrire un ulteriore spunto educativo. È per questo che – ad esempio – dallo scorso ottobre abbiamo già organizzato venti incontri a livello parrocchiale e decanale per presentare una mostra fotografica sulla crisi siriana e per ragionare sulle radici e sulle conseguenze di un conflitto pressochè incomprensibile anche agli addetti ai lavori.
Un’ultima considerazione. Nella prima fase dell’emergenza la Cooperativa Farsi Prossimo, promossa da Caritas Ambrosiana, ha gestito strutture comunali in via Novara e in via Fratelli Zoia, sempre a Milano. Dopo la chiusura di entrambe ci siamo, in un certo senso, messi in proprio grazie alla disponibilità delle Suore della Riparazione che ci hanno affidato per un significativo numero di anni un’ala inutilizzata di Casa Nazaret, in via Salerio, zona Lampugnano. A spese della Cooperativa questi spazi sono stati ristrutturati e dalla metà di Maggio sono in grado di dare ospitalità a 100 persone, rispettando però i nuclei familiari e guardando comunque oltre le urgenze del momento. Ennesima conferma, se mai ce ne sia stato bisogno, di una Chiesa che – quando con discrezione alza la voce per richiamare gli enti pubblici all’assunzione delle proprie responsabilità – non si appiattisce mai in una sterile lamentazione, ma ci mette del suo. A dimostrazione di una passione seria per il bene di tutti e di ciascuno.
Don Roberto Davanzo