Potente in opere e in parole, dicevamo, se ricordate. Si parlava di Gesù, ma per meglio definire il compito della Caritas, la necessità di vivere la profezia nella chiesa e nel mondo coniugando una mai esausta fantasia nel rispondere ai bisogni di quanti in vario modo bussano alle nostre porte con una sempre più raffinata abilità narrativa, con un desiderio ininterrotto di comunicare, di riscaldare il cuore di quanti ci guardano, ci stimano, ma da noi aspettano anche una bella capacità di coinvolgimento.
Ebbene, a questo binomio - opere e parole - dobbiamo aggiungere un terzo termine, una terza capacità: quella della preghiera, della percezione che si traduce in scelte concrete e precise con cui diciamo che abbiamo a che fare con una missione impossibile se solo pretendiamo di realizzarla con le nostre forze. Ecco che cos'è la preghiera: la dichiarazione della nostra inadeguatezza rispetto ad un compito che ha a che fare con il sogno di Dio.
Le giornate di eremo, che anche quest'anno proponiamo in tre luoghi della Diocesi, da sempre appartengono alla programmazione di Caritas Ambrosiana. Ma non come un evento, un convegno tra i tanti. Bensì come il richiamo stabile al superamento di quella malattia che ci ha contagiati un po' tutti e che forse è alla base di qualche fraintendimento che ancora circola in talune frange del mondo ecclesiale: l'illusione cioè di poter basare la nostra operatività solo sulla nostra proverbiale genialità e sul nostro spirito di iniziativa, sulla nostra generosità e fantasia. Con il rischio, sempre in agguato, di pensare di essere noi, in fin dei conti, i "salvatori" del mondo.
Lungi da tutto questo, le giornate di eremo hanno la pretesa di ricordarci la radice ultima della nostra carità e cioé la carità stessa del Dio di cui Gesù ci ha rivelato il volto; nonché la necessità di renderci disponibili ad una conversione personale, prima ancora di illuderci di poter spingere altri a qualsivoglia cambiamento.
Ecco allora il senso, non solo delle giornate di eremo in se stesse, ma anche dell'argomento su cui proveremo a riflettere, a pregare, a cambiare. Parleremo infatti di compassione, cioè di quell'atteggiamento, di quella virtù grazie alla quale la carità da attività organizzata diventa stile personale che plasma il nostro normale modo di rapportarci agli altri. Già, perché il rischio che rende la carità sostanzialmente inefficace è quello di viverla da professionisti, come se fosse un mestiere: ineccepibilmente sul piano formale, ma fondamentalmente senza che le pur buone azioni messe in atto a favore di chi fa fatica a vivere riescano a creare un clima bello attorno a chi le compie, un clima fatto di sguardi e di simpatia, di pazienza e di perdono, di incoraggiamento e di promozione.
Ecco perché la compassione: perché è il biglietto da visita di Dio stesso, il suo look, il modo in cui si presenta all'uomo, affinché l'uomo fatto a sua immagine e somiglianza gli assomigli un po' di più e la vita tra gli umani possa diventare più bella. A che servirebbe - parlo in modo paradossale - un mondo anche senza poveri se poi quel mondo fosse privo di compassione, privo di quello sguardo di benevolenza degli uomini tra di loro che solo può rendere la nostra vita meritevole di essere vissuta?
Certo, le persone che potranno partecipare alle tre giornate di eremo programmate per le prossime settimane saranno solo una minima percentuale rispetto ai tanti operatori e volontari che Caritas Ambrosiana riesce a coinvolgere nei propri servizi e nelle molte parrocchie in cui è presente. Ciò non toglie l'urgenza di liberarci dalla tentazione di pensare che ciò che conta è il nostro impegno, dimenticando di radicare tale fatica nell'unico terreno fecondo che è l'amore di Dio per noi e per l'umanità intera. Così come non toglie l'urgenza di imparare quella compassione senza la quale ci trasformeremmo in certo efficienti, ma insieme tristi e sterili operatori umanitari.
don Roberto Davanzo
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