Gli spunti di riflessione che l'arcivescovo Scola ha pubblicato prima della pausa estiva mi sembrano meritevoli di una qualche traduzione anche a livello del vissuto delle nostre Caritas.
Dietro alla "Nota pastorale" intitolata La comunità educante ci sono alcune intuizioni che appartengono al mandato che da sempre ci è stato affidato dai Vescovi italiani, in particolare a proposito di quel compito educativo che siamo chiamati a svolgere nei confronti delle nostre comunità di appartenenza, compito che - non nascondiamocelo - rischiamo talvolta di mettere tra parentesi, tutti presi a cercare di rispondere alle richieste che quotidianamente ci vengono rivolte. Certo, la "Nota pastorale" è anzitutto rivolta al mondo dei ragazzi, specie a quelli dell'iniziazione cristiana, al modo in cui gli adulti che si occupano della loro educazione sono chiamati a operare remando nella stessa direzione. Ma questo non esclude la necessità di rileggere dal punto di vista di una Caritas diocesana l'impegno a superare una concezione della pastorale a compartimenti stagni in cui ogni settore finisce per sentirsi responsabile del suo "pezzo" e quasi autorizzato a disinteressarsi degli altri. Un "disinteresse" che porta così a ragionare in termini di delega. Ora, se da un lato è comprensibile che non tutti dobbiamo occuparci di tutto e che qualcuno dovrà acquisire competenze specifiche, dell'altro si intuisce che, quando c'è di mezzo la carità, nessuno nella comunità cristiana può tirarsi indietro, a nessuno è lecito ragionare in termini di scarica barile.
Così, da un lato la "Nota pastorale" dell'arcivescovo ci fa fare un bell'esame di coscienza rispetto alla consapevolezza con cui vivamo il nostro impegno, rispetto cioè all'obiettivo ultimo che è la crescita del senso di solidarietà diffuso nelle nostre comunità cristiane. Dall'altro, ci incoraggia a precisare che la carità non potrà mai essere di appannaggio di nessuna realtà, nemmeno della Caritas, e che nella educazione alla carità ci si dovrà sentire un po' tutti coinvolti, senza delegarla a chicchessia. Se la parrocchia dovrà pensarsi sempre più come "comunità educante" rispetto alla fede dei ragazzi, per certi versi lo dovrà essere anche in riferimento alla carità di ogni suo membro.
Ecco allora che cosa può significare il concetto di "comunità educante" sul piano della carità:
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che si superi l'idea della carità come di qualcosa da fare, come di una buona azione o peggio di un dovere da assolvere con qualche offerta
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che tutti i gruppi, da quelli caratterizzati da un impegno educativo a quelli più organizzativi, si pongano l'obiettivo di mostrare - nel modo più convincente possibile - che lo scopo ultimo del loro esserci è quello di costruire uno stile attraente e simpatico, specie nei confronti di chi è più lontano dalla Chiesa
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che ci si intenda sul modo corretto di realizzare la carità da parte della Chiesa a partire dall'insegnamento del Concilio Vaticano II e da quanto i Vescovi italiani hanno da sempre chiesto alle Caritas delle nostre diocesi.
Detto fuori dai denti, ce ne faremo ben poco di Caritas anche ben organizzate, ma incapaci di far sentire un po' tutti corresponsabili nella costruzione della Chiesa e in grado di riconoscere nel volto dei fratelli più sofferenti quello di Gesù. Serviranno ben poco Caritas super-attive, ma sostanzialmente isolate dal resto dei gruppi parrocchiali. Ben lontane dal loro mandato saranno quelle Caritas che, pur in grado di entrare in relazione con Comuni e pubbliche amministrazioni, non riusciranno a farsi riconoscere come espressione della più ampia comunità dei cristiani.
Roberto Davanzo
Leggi tutto l'inserto de "Il Segno" di settembre 2014