Qualcuno sostiene che forse questa opera di misericordia sia un po’ fuori corso nel tempo che viviamo, il tempo di Internet, il tempo in cui quasi ogni forma di sapere parrebbe a portata di mouse. Non ci sono dubbi che nell’epoca di Google l’accesso alle informazioni abbia raggiunto un livello di facilità mai sperimentato prima nella storia dell’umanità (almeno di quella cosiddetta “connessa”), ma intuiamo tutti che una cosa è avere informazioni, altro è conoscere, cioè cambiare il nostro modo di vedere e interagire con il mondo. Un’esperienza, quella del conoscere, che il grande Agostino di Ippona legava all’amore, per dire che senza una qualche forma di attrazione, di passione, di trasporto, di mutamento, non può esistere una vera conoscenza.
Detto ciò, per entrare nello specifico di questa opera di misericordia che potrebbe essere la traduzione di quella che Rosmini chiamava la “carità intellettuale”, abbiamo bisogno di analizzare i due termini del nome: l’ignoranza e l’insegnamento.
Chi sono oggi gli ignoranti, dunque i destinatari di questa opera di misericordia spirituale? O meglio, si può ancora parlare di ignoranza in questo tempo in cui Wikipedia ci ha illuso di poter trovare tutte le informazioni che vogliamo, a condizione di avere un PC e una connessione Internet? La risposta a questa domanda dipende dal fatto che la conoscenza vera non è solo un insieme di informazioni accumulate una sull’altra, ma dalla capacità di passare da un sapere le cose ad un vivere in modo diverso, ad un guardare il mondo e le persone con altri occhi, a partire da quel sapere. Dunque un sapere che dia alla vita un sapore differente. Ecco perché ciascuno di noi sarà sempre un po’ ignorante: proprio perché le tante cose che impariamo, sappiamo, immagazziniamo, ... non diventano subito e automaticamente sapienza di vita. Se non attraverso l’aiuto di qualcuno che ci insegni.
Ed eccoci allora al secondo termine del nome di questa opere di misericordia: l’insegnamento.
In un recente saggio ho trovato questo splendido detto attribuito a Plutarco, filosofo greco vissuto all’inizio dell’era cristiana: “il maestro non è uno che riempie un sacco, ma uno che accende delle fiamme”, a dire che insegnare non è certo predeterminare il destino di qualcuno, ma allargare i suoi orizzonti, sprigionare in lui immensi interessi, spalancare i suoi occhi sulla bellezza sconfinata della realtà. E perché questo avvenga è necessario che l’insegnamento passi attraverso l’istruzione che è un po’ costruire una struttura ordinata fatta secondo una logica precisa e sequenziale. E dopo l’istruzione anche l’acquisizione di un metodo attraverso il quale determinati contenuti vengono acquisiti e “saputi”. Un sapere che diventa capace di orientare, cioè di far volgere lo sguardo verso la luce, l’oriente da dove sorge il sole, senza aver paura del buio della non conoscenza, visto che è di notte che le stelle si vedono meglio. Per arrivare ad addomesticare, cioè a far sì che la persona si senta a casa nel mondo che abita, sentendolo affidabile e attendibile. Ed infine per abituare, cioè a far sì che ciò che si è imparato e conosciuto divenga gesto ripetuto – habitus in latino – e dunque abitudine che rivela chi noi siamo, agli altri e a noi stessi.
Il tutto per dire che insegnare è dare tempo perché ciascuno possa scoprire le proprie inclinazioni e lavorarci sopra in modo costante e regolare. Papa Francesco nella bolla di indizione del giubileo ha scritto che al termine della nostra vita ci verrà chiesto “se saremo stati capaci di vincere l’ignoranza in cui vivono milioni di persone, soprattutto i bambini privati dell’aiuto necessario per essere riscattati dalla povertà” e perché possano trovarsi bene nella grande casa del mondo, capaci di orientarsi nel cammino verso la loro pienezza di vita.
Don Roberto Davanzo
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