In fuga dalla Siria
Adesso non se ne parla più. Peccato che il problema esista ancora. E il problema ha il volto di centinaia di volti, uomini, donne, bambini, tutti provenienti dalla martoriata Siria, tutti in fuga da una situazione ormai stagnante in cui pare che nessuna diplomazia riesca ad avere la meglio rispetto ad un conflitto che a noi occidentali appare inspiegabile.
Un conflitto che ha già causato almeno ... morti e circa ... sfollati. Sono passati quattro mesi da quando i primi siriani hanno cominciato a giungere a Milano, alla ricerca di un modo per recarsi nell’Europa del nord. Ma il problema esiste ancora, non solo nei campi profughi della Giordania o della Turchia, ma anche qui da noi, a Milano, nel quartiere di San Siro o in quello di Quarto Oggiaro, dove il Comune di Milano – diversamente da quanto stanno facendo il Governo centrale e l’Europa – non ha messo la testa nella sabbia, approntando strutture di ospitalità per togliere queste famiglie dalle strade. O dalle panchine della Stazione Centrale.
Prima di Natale sono passato da una di queste strutture di accoglienza, una scuola dismessa da un paio d’anni, ed ora gestita da una delle cooperative legate a Caritas Ambrosiana. Qualcuno degli ospiti mi raccontava che erano partiti dalla Siria, avevano attraversato l’Egitto e poi la Libia, fino mettersi in mano dei nuovi mercanti di schiavi per approdare sulle nostre coste. “Per la prima volta, qui in Italia, ci hanno trattati da esseri umani”, mi dicevano.
Formalmente sarebbero dei clandestini, ma il buon senso italico, una volta tanto, ha prevalso rispetto ad una norma giuridica disumana. Loro non vogliono stare in Italia. Hanno contatti, agganci, parenti, amici, in altri Paesi europei che però possono raggiungere solo di sfroso. Già, perchè le norme giuridiche disumane non le inventiamo solo noi italiani!
Il Comune di Milano – dicevo – non ha messo la testa sotto la sabbia. Ha guardato in faccia al problema. Con umanità. Con buon senso. Sostenuto da segmenti della società civile fatti di imprese sociali che hanno messo competenza e cuore nell’affrontare problemi infiniti; fatti di volontari reclutati da associazioni e da Parrocchie di quei territori che di fronte a un problema umano non sono andati alla ricerca di scuse per polemiche elettorali, ma si sono rimboccati le maniche. La posta in gioco non era un consenso elettorale squallidamente conquistato, ma il sorriso di un bambino, le lacrime di gratitudine di una mamma, la fiera gratitudine di un papà “colpevole” solo di aver desiderato per la proprio donna, per i propri piccoli un futuro che il rimanere in patria sarebbe stato loro negato.
Di queste persone dobbiamo parlare quando affrontiamo la questione migratoria. E lasciamo agli intellettuali da salotto le disquisizioni dotte circa la differenza tra una politica di accoglienza e una politica di convenienza. Di fronte al bimbo ustionato durante la traversata del canale di Sicilia, di fronte agli occhi dei suoi genitori, che senso ha distinguere tra spirito di accoglienza e logica della convenienza. A quegli intellettuali possiamo solo proporre, almeno una volta in vita, di passare una mezza giornata in uno dei nostri centri per giocare con quei bambini. E forse il giorno successivo potranno scrivere parole più sagge, più umane, capaci di provocare alla ricerca di una soluzione vera che la pur significativa generosità di base non potrà mai assicurare del tutto.
don Roberto Davanzo