Malattia mentale e percorso di cura, una “presa in carico” evangelica nella comunità
Introduzione
La celebrazione della Giornata Mondiale della salute mentale ci offre ogni anno una preziosa occasione per riflettere sul significato della malattia mentale, delle sue ricadute sulla vita delle persone malate e delle loro famiglie. Quest’anno vorrei soffermarmi sulla relazione fra malattia mentale e comunità, sull’importanza che ha l’accoglienza di questa sofferenza nelle nostre comunità cristiane. Un’accoglienza tutt’altro che scontata poiché, quando si entra in contatto con un malato mentale, spesso prevale la tentazione di prenderne le distanze. Il percepirlo come imprevedibile, il timore che possa perdere il controllo, il sentirsi messi di fronte a se stessi e alle proprie vulnerabilità ci fanno prendere le distanze dimentichi che l’altro, malato, è una persona come noi con uguali desideri e paure.
L’accoglienza del malato mentale è invece occasione per crescere nella carità, per riflettere sulle domande profonde che ogni uomo si pone, sul senso della vita, del dolore, del benessere e della malattia, sulla dignità della persona. Cosa significa allora accoglienza per una comunità? Che cosa ci chiede la persona malata e cosa possiamo fare per lei?
Una comunità capace di “prendere in carico” il malato mentale
Il parlare di percorso di cura e di “presa in carico” di un malato mentale da parte della comunità potrebbe sembrare inappropriato agli occhi dei più che ritengono essere questo il compito per eccellenza dei servizi preposti alla cura e non della società civile o della comunità ecclesiale. Se invece utilizziamo questi termini in senso più ampio, ci accorgiamo di come tali percorsi coinvolgano a pieno titolo la comunità.
Bene esprime, infatti, la massima di Pascal «l’uomo supera infinitamente l’uomo» che evidenzia come, osservandoci in azione, diventiamo più consapevoli di come siamo spinti all’esterno di noi stessi in una trama di relazioni. L’uomo è un io-in-relazione, un essere per l’altro. E tali relazioni si snodano proprio nella comunità, là dove si dovrebbe realizzare l’accoglienza del malato mentale e della sua famiglia. L’accompagnare la persona malata nel suo percorso di cura, il farsi responsabili della sua “presa in carico” significa allora crescere come persone, come società civile e comunità ecclesiale, generare solidarietà, un di più di umanità. E questa natura relazionale, che rimanda al rapporto con il Dio creatore, conforma il nostro appartenere ad una comunità.
Sono convinto che il principio della cura non possa risiedere unicamente nella clinica, nella diagnosi o nella relativa terapia. Il principio della cura è accompagnamento, prossimità che si manifesta in modo privilegiato nelle situazioni di malattia e di sofferenza. Gesù davanti alla sofferenza non ha dato alcuna spiegazione, ma l’ha condivisa. E questo è quello che ci è chiesto. È un accompagnamento possibile a tutti, anche a chi è privo di competenze mediche o tecniche; è la scelta di stare a fianco del malato mentale quando non ci sono parole da dire o cose da fare. Il prendersi cura dell’altro è infatti un’arte, non una semplice tecnica, una relazione umana nella quale mettersi in gioco e non solo un rapporto professionale. E, a volte, è proprio questa relazione interpersonale che riconosce l’altro come soggetto l’unica possibilità per restituirlo alla sua dignità evitando così di ridurlo alla sua malattia. Questo sguardo vero che riconosce l’altro, contrasta la tendenza allo scoraggiamento che si affaccia quando gli sforzi non producono i miglioramenti sperati, quando è sempre più faticoso tollerare la frustrazione delle ricadute, quando avanza il rischio di convincersi che la malattia mentale non meriti alcuna fatica perché creduta inguaribile ed immodificabile. Se invece ci educhiamo a guardare oltre i risultati immediati, possiamo intuire come l’altro, soggetto che ci provoca con la sua malattia, ci offre l’occasione preziosa per fare nella nostra vita un lavoro di purificazione delle motivazioni e dei desideri, uscendone più maturi e ricchi in umanità. È la ricchezza che ogni momento di travaglio porta con sé. Non dobbiamo sottovalutare poi come la possibilità di poter fare affidamento su una relazione di accoglienza incondizionata, non vincolata neppure al successo delle terapie, possa restituire significato all’intera esistenza della persona malata.
Vorrei evidenziare un ulteriore aspetto a sostegno della possibilità e del valore di una “presa in carico” da parte della comunità. La malattia, e quindi anche la malattia mentale, non può essere relegata agli ambiti di cura e, allo stesso tempo, sottratta alla vita quotidiana: la persona supera la sua malattia in un’unità che si esplica là dove vive, ha una sua esperienza ed è soggetto del suo percorso di cura. Non si può ridurre la persona al solo livello biologico, come non si può ridurre il percorso di cura all’esclusiva assunzione di farmaci. Troppo spesso al drammatico esordio di una malattia mentale, si è preoccupati di guarire la malattia, rischiando di dimenticarsi che dietro ad essa c’è una persona di cui prendersi cura nella globalità del suo essere. Vorremmo trovare la persona al centro della cura, considerata in quanto tale prima che come paziente. Ci viene pertanto chiesta una conversione per passare da questo orizzonte puramente biologico ad un altro orizzonte più ampio, così da modificare e allargare i nostri criteri di lettura e di comprensione della realtà. La conversione è quella trasformazione di orizzonte che ci permette di leggere la vita umana in una dimensione più appropriata senza riduzionismi indebiti, consapevoli dell’illusorietà della convinzione che, grazie al potere scientifico e tecnologico, si potrà, in un prossimo futuro, far tacere ed eliminare il dolore e la sofferenza umana. Il bisogno di salute è poi connesso alla domanda profondamente umana di salvezza e senza raccoglierla per intero credo che non si possa pensare di potersene prendere cura.
In questo percorso di accompagnamento, la comunità è sì il luogo del prendersi cura ma è anche lei stessa promotrice di cure. Non solo perché la famiglia è parte della comunità, e da essa va sostenuta, ma anche perché è lo spazio relazionale nel quale sviluppare una cultura della solidarietà. Da qui la necessità di un’azione di sensibilizzazione e di formazione su tematiche inerenti la malattia mentale, per sconfiggere la stigmatizzazione e i pregiudizi – come il ritenere che malattia mentale sia sinonimo di pericolosità sociale –, per diffondere un atteggiamento accogliente verso i portatori di tale disagio. La cura che la comunità può offrire passa attraverso le reti informali ovvero le reti familiari, amicali, di vicinato, ecc. È attraverso queste relazioni che si può favorire non solo il benessere della persona malata, ma della comunità intera, adoperandosi per l’inclusione sociale, il miglioramento dei rapporti interpersonali, il sostegno all’abitare, al lavoro e ad un impiego soddisfacente del tempo libero. La cura reciproca ha un valore sociale considerevole. Come in famiglia, ricevendo le prime cure, diventiamo noi stessi protagonisti di cure verso altri, così anche nella vita di comunità il sapersi prendere cura uno dell’altro manifesta la bellezza dello stare insieme, la capacità di dono gratuito e di porre in atto gesti di condivisione e di solidarietà. È questo esercizio quotidiano di prendersi cura dell’altro che costruisce relazioni significative, di riconoscimento reciproco e di speranza, reti di sostegno per quando le persone attraverseranno un tempo di crisi e di difficoltà, dalla malattia mentale al disagio psichico, ad esempio, per la perdita del lavoro o dei legami famigliari.
Le sfide che ci attendono
Ci sono ancora molti ostacoli che impediscono alle nostre comunità di essere luoghi di accoglienza e di accompagnamento delle persone con malattia mentale. È necessario farsi promotori di politiche della salute attente a tutte le fasce di età, capaci di garantire la qualità e la continuità della cura nel rispetto dei diritti delle persone con disturbi mentali. Un’ulteriore sfida che ci attende ruota attorno alla capacità di accompagnare i malati mentali nel percorso di ri-definizione della propria vita, alla ricerca di un senso che spesso viene meno all’esordio della malattia e che può essere trovato grazie ad una lettura della propria esistenza in un orizzonte cristiano capace di ri-donare significato anche gli eventi dolorosi della propria vita.
Vi auguro allora di saper far crescere comunità capaci di segni di solidarietà concreta, di prendersi cura dell’altro. Possiate farvi compagni di strada di quelle persone malate che ci chiedono di essere riconosciute nella loro dignità, nei loro diritti là dove viviamo, quali membri di una stessa comunità.
+ Angelo Card. Scola
Arcivescovo di Milano