A volte è come se i film venissero proiettati più volte sullo stesso schermo. Raramente sono scene romantiche e o da “e vissero tutti felici e contenti”.
Ha sempre sognato, Fatima, di entrare per magia in uno di quei film della tivù dove la povera sguattera diventa la sposa dell’eroe di turno e d’incanto sale le scale di palazzo per prendere parte a danze sfrenate e ritmate che durano decine di minuti senza scalfire i sorrisi di gioia.
E invece questo film lo ha già visto, e anche l’altra volta aveva gli stessi colori, il rosso e l’arancio, gli stessi odori di fumo e carne bruciata e lo stesso calore tremendo da far sciogliere i bracciali di rame sui polsi.
E come la volta prima non è un film ma la durissima realtà del fuoco.
Allora la scenografia era il suo villaggio in Myanmar, ora è questa landa secca in Bangladesh, ma le scene si sovrappongono.
Lo scorso 22 marzo un incendio ha devastato quattro dei numerosi campi profughi nella regione di Cox’s Bazar, nel Bangladesh sud-orientale
[1],
provocando la morte di almeno quindici persone, il ferimento di migliaia e lasciandone ottantottomila senza casa.
Quello degli incendi è solo uno dei problemi che i profughi Rohingya, popolazione cacciata dal Myanmar a più riprese nel corso della storia e in modo estremamente massiccio nell’ultima crisi del 2017, devono affrontare. Il clima torrido di una buona parte dell’anno,
la densità abitativa e i materiali utilizzati per la costruzione dei ripari all’interno del campo profughi più grande del mondo
sono un miscuglio di ingredienti instabile e pericolosissimo. Basta allora una fiamma libera – all’ordine del giorno dove si vive di cibo cucinato a legna – per innescare incendi frequenti, spesso subito domati, talvolta con effetti distruttivi e altre, come in questo caso, con conseguenze devastanti.
Solo nell’ultimo mese si sono registrati almeno tre roghi di una certa importanza, e
ben 73 dal 2017 ad oggi,
[2] che hanno richiesto l’intervento dei vigili del fuoco ed hanno portato le persone a dover cambiare casa e a perdere tutti i propri averi.
Fatima questa volta ha perso una zia e due amichette nel calore infernale di quel fuoco. Lei è riuscita a scappare e a trascinare, insieme al cugino, anche la nonna che ormai è troppo vecchia e stanca della vita per muoversi.
Il calore era insopportabile ma di più bruciano ora le lacrime che rigano il volto di sua mamma, del fratello e della nonna. Papà è morto lo scorso anno quando, nel tentativo di far defluire le acque del monsone, è stato travolto da uno smottamento.
Quando il caldo dà tregua, arriva la stagione dei monsoni che si abbatte senza parsimonia su queste baracche di bambù, che allaga le strade di terra battuta ed indebolisce i terreni spianati a far diventare campo profughi quelli che erano crinali di colline.
Le inondazioni, allora, portano oltre che ad epidemie diffuse – colera, infezioni respiratorie – anche alla distruzione di abitazioni, al forzato sovraffollamento dei campi non allagati e costretti ad accogliere i profughi rimasti senza riparo e ad una complicazione gestionale estremamente delicata
[3].
Le agenzie umanitarie preparano ogni anno il terreno e la popolazione all’evento monsonico e mettono in atto tutte le strategie possibili per prevenire i danni peggiori che la stagione delle piogge porta naturalmente con sé.
Ora però questo devastante incendio ha destabilizzato i piani, ovvero
ha aumentato in maniera esponenziale il rischio per le persone direttamente colpite ma anche per quelle che vivono nei campi vicini.
[4]
Mamma piange perché ormai non è rimasto più niente, i documenti – qualche sgualcito foglio di carta protetto in buste di plastica – sono andati perduti, e così i pochissimi vestiti, il materasso di gommapiuma, le sedie e tutti i libri di Fatima.
Mamma piange perché nella loro terra si insegnava l’arabo e il birmano, perché papà pescava e questo bastava a vivere dignitosamente e ad essere sereni. Piange perché per la sua Fatima sognava la scuola, lo spostamento in una città più grande, un buon marito e il sorriso radioso come dipinto sul suo volto ambrato.
Piange, perché da anni tutto questo non c’è più, né il pesce, né il marito, né i sogni.
Si chiede se non stia meglio
la sorella Menara che con la famiglia
è stata portata a Bashan Char,
un’isola lontana ma dove, forse, ci sono più speranze e meno fuoco.
Menara fa parte di un primo gruppo di oltre 1600 profughi che sono stati spostati,
contro la propria volontà e
ad opera del Governo del Bangladesh, in un’isola della baia, lontana, deserta e altamente soggetta ai cicloni che flagellano il Paese.
[5]
Ora i profughi già trasferiti sono più di quattordici mila mentre il progetto prevede lo spostamento di almeno centomila persone.
Il “trasferimento” dei profughi fa parte di un progetto del governo
per alleggerire la tensione demografica nei campi di Cox’s Bazar ma è stato fortemente osteggiato da molte organizzazioni umanitarie che chiedevano maggiori garanzie in termini di protezione, soluzioni abitative, sicurezza.
“Il trasloco di a Bhasan Char è una conseguenza del fallimento degli sforzi della comunità internazionale nel garantire una soluzione a quella che è divenuta una emergenza prolungata dei profughi”, dice Bernard Wiseman
[6], il direttore di MSF in Bangladesh e si riferisce ai
numerosi tentativi nel cercare una soluzione umanitaria e politica sostenibile. Tentativi miseramente inappropriati e falliti.
Le innumerevoli promesse, infatti, da parte del Myanmar di riaccogliere i profughi e del Bangladesh di favorirne un rientro sicuro sono rimaste lettera morta. E la situazione delicatissima del Myanmar, ora, rende queste promesse non solo vane ma quasi una beffa
[7].
Fatima e la sua famiglia vivono ora al campo 4 dove sono state sistemate in alcune baracche dismesse o liberate in tutta fretta per far spazio a loro, “i bruciati” del campo 9.
In realtà i veri ustionati, quelli orribilmente feriti nella devastazione dell’incendio, sono ricoverati negli ospedali della zona e lottano tra la vita e la morte sperando di essere veramente gravissimi, così da poter aver accesso ai pochi posti letto rimasti nelle già poverissime terapie intensive.
Da qualche tempo in
Bangladesh tutto è tornato in lockdown, visto l’incremento preoccupante ed esponenziale dei casi di Covid.
Aumentano i contagi, aumentano le complicazioni respiratorie e sistemiche,
aumenta la pressione sui sistemi sanitari ma non cresce parimenti il comportamento sociale collaborativo e necessario all’appiattimento della curva epidemica
[8].
Il Bangladesh è uno dei paesi a maggior densità demografica al mondo con 1,115 persone per chilometro quadrato e il 21,8% della popolazione che vive in povertà [9]. Il sistema sanitario nazionale non è in grado non solo di rispondere a questa situazione pandemica ma nemmeno di assicurare l’assistenza ordinaria, laddove ci sono una media di 3.05 medici e 1.07 infermieri ogni 10 mila abitanti
[10] e il 79% della popolazione riceve assistenza sanitaria via telefono
[11].
Fatima tiene stretti sotto il braccio i tre libri che le sono stati donati: sono nuovi, colorati, ancora in gran parte incomprensibili ma già cosi preziosi.
Se li rigira tra le mani e i suoi occhi neri catturano ogni colore della copertina per farne un punto luce della mente in cui appendere sogni, speranze e fantasticare di posti diversi e luminosi. Poi rimette i libri sotto il braccio e
sorridente cammina saltellando fino al learning center.
Qui
Caritas Bangladesh ha allestito in una baracca di lamiera e bambù, del tutto simile alle case bruciate poco distante, un’aula con cartelli colorati, poster che spiegano come lavarsi le mani e come proteggersi dal virus, altri con l’alfabeto, altri ancora insegnano come fare attenzione ai rischi che le donne, più di tutti gli altri, corrono all’interno del campo.
Caritas Bangladesh,
grazie al supporto della rete di Caritas nel mondo, ha costruito e attivato più di venti CFS –
Child Friendly Spaces -, ovvero luoghi fisici di aggregazione e formazione per bambini e adolescenti.
Più di tremila bambini e ragazzi, ad oggi, ricevono istruzione, ascolto, occasioni di aggregazione e vengono accompagnati a cercare soluzioni ai problemi più diffusi nel campo e possono parlare di sé attraverso il gioco efficace e pedagogico
[12].
Fatima è in un gruppo con altre sedici ragazzine: insieme, guidate da una educatrice,
imparano a scrivere e a leggere ma anche a comprendere i segnali del campo, a fare la spesa, a conoscere il proprio corpo che cresce, a relazionarsi con gli altri nel campo e fuori di esso e soprattutto a giocare.
Dopo le lezioni, infatti, i vari gruppetti di studenti, maschi e femmine insieme, rincorrono per le viuzze palle colorate, o vengono guidati dagli operatori in caccie al tesoro che sembrano non finire mai.
E ogni, volta, alla fine, scoprono che il tesoro di queste cacce è già con loro: è il sorriso bianco della spensieratezza di bimbi, è il cuore che pulsa fino a scoppiare per le corse e per la gioia, è il sudore non di fatica, questa volta, ma di felicità, è il rimbalzare di sguardi furtivi tra adolescenti che fa dimenticare gli incendi, le alluvioni, i virus e la fame.
di Beppe Pedron, Caritas Italiana
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Note:
[1]
Avvenire
[2]
https://www.dw.com/en/bangladesh-rohingya-refugees-fire/a-57120531
[3]
Reliefweb
[4]
https://drc.ngo/it-matters/current-affairs/2021/3/fire-in-cox-s-bazar/
[5]
https://www.bbc.com/news/world-asia-55177688
[6]
https://www.msf.org/rohingya-refugees-face-tough-choices-bangladesh
[7]
Caritas Italiana
[8]
https://www.dhakatribune.com/opinion/editorial/2021/04/19/ed-a-worrying-trend
[9] Chowdhury T, 2020. Bangladesh: one in five people live below poverty line. Al Jazeera, January 26. Available at:
AlJazeera
[10] WHO, 2011. Bangladesh. Global Health Workforce Alliance. Geneva, Switzerland: World Health Organization. Available at:
https://www.who.int/workforcealliance/countries/bgd/en/
[11]
Daily Prothom Alo
[12] Caritas Bangladesh, nei CFS che gestisce adotta le seguenti metodologie: life skills, clown science e No Strings Interntional (
https://www.nostrings.org.uk ).