Khartoum, la capitale commerciale del Sudan, è come ogni città del mondo nell’era della globalizzazione: la sua ora di punta inizia presto e sembra non finire mai. Piccoli e grandi veicoli si muovono di pochi centimetri per volta e sembra che nessuno vada in nessuna direzione.
Mentre il traffico procede a strappi, un carretto trainato da un asino, spunta fuori dal nulla, entrando e uscendo dal serpente di acciaio quasi a voler ricordare che, nonostante l’evoluzione dell’automobile, a volte il modo più semplice per arrivare in tempo è la più antica forma di trasporto.
Sto aspettando a Karthoum insieme agli operatori di Norwegian Church Aid (NCA), partner della rete Caritas, che si preparano a spostarsi nella zona centrale del Darfur. Il tragitto per arrivare negli uffici del NCA è molto breve, ma ad ogni passo mi pare di addentrarmi sempre di più all’interno di un forno per il pane.
Chiunque qui abbia bisogno di un po’ di refrigerio dai 43 gradi della città lo può trovare nel punto in cui il Nilo bianco e il Nilo blu si uniscono… le acque fresche diventano una sorta di miraggio reale, unico modo per sfuggire alla canicola di Karthoum.
Un gruppo di donne lascia scivolare lentamente i piedi colorati con l’henné fuori dai sandali per bagnarli in acqua, un gruppo di ragazzi delle scuole elementari ha creato una specie di galleggiante con le bottiglie di plastica vuota e ci si aggrappa con tenacia, gli esperti nuotatori sfidano le fredde e a volte pericolose rapide del Nilo ridendo e nuotando in tutte le direzioni.
Decollando da Khartoum verso Zalingei, nella zona centrale del Darfur, gli edifici rapidamente scompaiono e lasciano il posto ad una vasta distesa arida e brulla.
Solo ogni tanto all’improvviso il paesaggio diventa verde e mostra un patchwork di piccoli campi coltivati ricchi di colture in crescita, ma è una visione piuttosto rara…

Atterrati a Zalingei, un breve spostamento su una strada piuttosto sconnessa e siamo negli uffici dell’NCA in prima linea da dieci anni nel portare avanti programmi salva vita (cibo, acqua potabile, servizi igienico sanitari, cliniche per la nutrizione) in questa regione martoriata dalla guerra civile.
Non ci sono strade asfaltate, solamente sentieri di terra, qui gli asini sono i padroni della strada, in grado di destreggiarsi tra buche, crepacci e dislivelli capaci di far ribaltare una jeep.
La città è grande e vivace e una grande strada polverosa ospita su entrambi i lati un lungo serpentone di baracche di legno e materiali di fortuna. Sono per lo più piccoli negozi improvvisati che vendono generi di prima necessità. Gli unici edifici solidi, brillantemente dipinti in blu e bianco, sono la stazione di polizia, il palazzo del Governo e le Nazioni Unite.
Non appena arriviamo nel caldo torrido del sole pomeridiano il muezzin della moschea canta la chiamata alla preghiera.
Dieci anni di mattoni di fango
Non ero sicura di cosa mi aspettasse di preciso quando sono arrivata al campo di Khamsa Dagaig. Avevo in mente un’immagine vista in televisione di tende delle Nazioni Unite un po’ logore e un po’ scolorite. Quando guardo il campo capisco che ormai i teloni di queste tende sono praticamente spariti, sepolti sotto dieci anni di mattoni di fango. Così le tende si sono trasformate in baracche, le baracche in case, le case in alloggi permanenti per quelle persone che scappavano da un conflitto e cercavano un rifugio temporaneo nella speranza di poter tornare presto alle loro case.
Su questo vasto insediamento di sabbia è difficile capire dove inizia e finisce il campo. La sua espansione, negli ultimi dieci anni, ha generato una fusione con la comunità preesistente al campo.

Affrontando una breve salita sulla cima della collina a fianco si può avere una visione d’insieme migliore. Il collega di Caritas Norvegia mi dice che il campo sarà grande quanto cinquanta campi di calcio messi insieme, a me pare una stima in difetto. Segni di presenza umana ci sono dappertutto e in un’area molto estesa: un mercato nel centro del campo, mucchi di mattoni rossi pronti per essere trasformati in una struttura robusta e duratura, bestiame acquistato da alcune famiglie che vaga in cerca di qualcosa da brucare.

Sette anni fa i comitati per l’acqua del campo, con il supporto di Caritas Norvegia, hanno iniziato a lavorare per trovare il modo più efficiente per rifornire il campo di acqua potabile, sicura e pulita. Un’impresa non facile visto che conta oltre 20.000 abitanti.
Hanno scavato le fondamenta del pozzo e grazie all’energia dei pannelli solari possono contare sul pompaggio dell’acqua verso 15 fontanelle sparse per il campo.
Amina si ricorda bene di quando lo scavo del pozzo terminò. Lei era una di quelle donne fotografate con lo sguardo assorto rimirando l’acqua pulita che stava in fondo allo scavo. Lei era una di quelle donne che hanno fornito cibo e acqua a chi ha scavato a mano il pozzo.
“Quando siamo arrivati al campo l’acqua era un grosso problema, dovevamo camminare a valle per trovare acqua potabile, ma questo era molto pericoloso, a volte donne e ragazze sono state attaccate. Abbiamo ancora molte sfide da vincere dopo dieci anni di vita in questo campo, ma almeno non dobbiamo preoccuparci dell’acqua. Posso mantenere me e i miei due ragazzi in buona salute perché ho acqua pulita ogni giorno”.
Conversazioni con i bidoni dell'acqua
Le donne del campo si sono alzate presto per mettere le loro taniche in coda di fronte al tubo dell’acqua. Mentre aspettano che arrivi l’acqua possono andare a svolgere qualche faccenda quotidiana per poi tornare a riempire le taniche. Nessuna delle taniche pare avere segni distintivi, sono tutte gialle o bianche. Come fanno a riconoscerle? Eppure quando rivedo le donne di fronte al tubo dell’acqua tutte sanno esattamente qual è la loro. Provo a domandare loro questa stranezza, ma capisco subito di aver posto una domanda ridicola. Mi guardano strano e ridono.

È difficile capire come le donne siano riuscite a sopravvivere, costrette a scappare dalle loro case e dai loro pochi averi per ricominciare da capo in un ambiente completamente inospitale.
“Quando sono arrivata al campo con la mia famiglia era molto difficile, dormivamo per terra, potevamo stare insieme, ma avevamo paura, paura di sparatorie” racconta Haja che ha vissuto nel campo negli ultimi nove anni.
Quando si chiede alle persone del campo chi si sta prendendo cura di loro tutti riconoscono l’azione dell’NCA il partner di Caritas. È una delle poche agenzie umanitarie che non solo va nei campi, ma ci lavora a lungo, è qui da dieci anni. Haja ci racconta ancora: “NCA ci ha portato l’acqua che vuol dire buona salute per i miei figli. Camminiamo con loro ogni giorno. Loro non ci dimenticano”.
Festa di nozze
In una brutta giornata è facile dire che la situazione in Darfur è complicata. Ma quando ti prendi una piccola pausa e per un momento provi a guardare le piccole cose che ti accadono intorno capisci che ovunque ci sono piccoli segni di speranza. Può essere il sole che splende e fa capolino tra i pannelli solari che assicurano il pompaggio dell’acqua pulita dai pozzi, possono essere le coltivazioni che ondeggiano lentamente nella brezza della sera o più semplicemente il suono di bambini che ridono…
La gente parla in continuazione delle sfide che deve affrontare, la vita al campo è tutt’altro che facile. Ma spesso si parla anche di pace, di voglia di tornare a casa, di rivedere le proprie terre.

Nel campo di Hassa Hissa nel mio ultimo giorno di permanenza mi capita di vedere delle donne vestite nei loro migliori abiti brillantemente colorati che trasportano grandi vasi d’argento sulle loro teste. Cantano e ballano per raggiungere la loro destinazione: la casa di una sposa. Il piccolo corteo entra in un piccolo spazio in cui alcune donne stanno cucinando il banchetto di nozze. Si vedono e si sentono grandi pentoloni gorgogliare sul fuoco.
Proprio quando cominciavo a pensare che la gente non ha più speranza nel futuro capisco di essermi sbagliata.
La solidarietà del gruppo di donne è travolgente, vengo catturata anche io dalla situazione. Mi mettono a mescolare il contenuto di un grande pentolone. La mia azione non è molto fluida, le donne mi guardano e ridono.
Resto ancora una volta colpita da un’immagine… un bambino ha costruito una piccola macchina giocattolo utilizzando una vecchia bottiglia di plastica. Ha persino inserito un piccolo fiore all’interno dell’auto per darle un tocco speciale. Mi guarda e mi fa vedere la sua creazione tenendola salda a sé con entrambe le mani. “È stata difficile da fare, ci ho messo molto tempo, ma amo le automobili e amo il mio giocattolo”.
Qui in Darfur le persone non si sono fatte derubare delle loro speranze e dei loro sogni dalla vita del campo. Li hanno tenuti saldamente vicini con entrambe le mani.
Questo articolo è stato scritto da Nana Anto-Awuakye di Cafod e pubblicato sul sito www.caritas.org. Le foto sono di Annie Bungeroth ACT-Caritas.