Ogni viaggio in paesi stranieri e lontani dall’Europa è sempre un’esperienza interessante, se si guarda oltre i soliti luoghi comuni della differenza di cultura e di colture, di profumi e di sapori, di saperi e di religioni, che colpisce e fa riflettere. Ma ancor più profondo e disarmante, come un pugno nello stomaco, può essere, per chi arriva da quella parte del mondo dove non manca niente, l’incontro con un paese in via di sviluppo: un orizzonte di grande vitalità ma anche di profonde diseguaglianze, povertà estreme, discriminazioni ramificate, che anche a un occhio abituato a questi temi, presenti pure in occidente, nelle nostre società ricche ed evolute, emergono però, ad altre latitudini, nella loro più drammatica e disarmante dimensione.
L’esperienza diventa ancora più coinvolgente se passa attraverso la condivisione con chi ha scelto di vivere in modo permanente la vita di quel paese, in questo caso i missionari del Pime. Visite a missioni storiche, parrocchie rette da preti e suore locali, persone e famiglie incontrate nelle loro case poverissime ma dignitose, in villaggi rurali o in slum delle periferie industriali: un viaggio che provoca, e costringe a interrogarsi sul proprio modo di vedere le cose.
Questo riorientamento di prospettiva è ciò che mi è capitato durante il viaggio in Bangladesh che ho compiuto a inizio d’anno. Il Bangladesh: un paese giovane (dei 173 milioni di abitanti, il 60% non ha 25 anni), tra i più poveri e corrotti del mondo, nel quale opera mio fratello, padre Gian Paolo (missionario del Pime, dal 1993 nel paese asiatico). Un luogo fecondo di sorprese e riflessioni, anche riguardo alla presenza di una Chiesa di minoranza, che deve convivere con la preponderante componente islamica (80% della popolazione), in contesti di povertà e di indifferenza al messaggio cristiano. In particolare su questioni che provocano anche le nostre chiese antiche e strutturate, come quelle relative ai giovani, alle donne, ai poveri.
Quella che opera in Bangladesh è una Chiesa giovane, che si prende cura di un popolo giovane. In particolare di bambini e studenti, tramite scuole, dalle primarie fino all’università, aperte anche ai più poveri, spesso affiancati da ostelli per favorirne la frequenza. Una Chiesa che si dedica ai giovani lavoratori che partecipano alla crescita frenetica di un’economia fatta non più solo di agricoltura, ma di industrie, trasporti e servizi.
La Chiesa in Bangladesh incarna una scelta di promozione umana aperta a tutti, non solo ai cristiani, per dare un futuro alle giovani generazioni. La scommessa, al permanere delle diseguaglianze, è far sì che migliorino le opportunità per potenziare la propria condizione. Puntare sull’educazione e sul coinvolgimento dei giovani, che in questo paese, pur nelle difficoltà, hanno gli occhi pieni di speranza, è una scelta lungimirante per una Chiesa che mira a generare nuove comunità e al servizio del bene comune.
È una Chiesa che non può fare a meno delle donne. Una cosa che colpisce, infatti, è la significativa presenza di donne di Chiesa, consacrate e laiche, protagoniste della vita delle loro comunità: animatrici liturgiche, anche quando il sacerdote non riesce a raggiungere tutti i villaggi e le missioni, ospitali, evangeliche, al servizio dei più poveri, per nulla in soggezione, consapevoli del loro ruolo nel cammino di rinnovamento della Chiesa, oltre che della società. Incarnano quella che si può definire una “pastorale delle relazioni”, basata sull’incontro e sull’ascolto. Postura che favorisce la vicinanza e il dialogo, condizioni per superare le divisioni interne alla Chiesa cattolica fondate sull’appartenenza alle diverse etnie, nonché le differenze con le confessioni cristiane e le altre religioni presenti nel paese.
Insomma: una chiesa veramente povera tra i poveri. Con opere che dicono la fede cristiana e una fede che si incarna: nelle ferite degli ammalati, dei disabili, delle famiglie poverissime, grazie a ospedali, dispensari, ostelli, mense, visite villaggio per villaggio. Per testimoniare che il prendersi cura è lo stile di Dio. È una Chiesa che annuncia un Dio che si avvicina, che supera i confini e le discriminazioni, che vuole il bene (promozione umana e religiosa, salute, diritti, lavoro, dignità) di tutti, non solo dei cristiani. Che cerca di coinvolgere nei percorsi di sostegno e sviluppo le persone che aiuta, per responsabilizzarle nei processi di liberazione dal bisogno.
Così è avvenuto e sta avvenendo anche a livello ecclesiale, con i missionari del Pime che, seguendo il loro carisma, hanno generato nuove vocazioni bengalesi e consegnato le missioni, le scuole, le tante iniziative di carità alla Chiesa locale. Mettendola in condizione di camminare con le proprie gambe, per interpretare alla luce del Vangelo le sfide di evangelizzazione che si presenteranno nel futuro. Con uno stile missionario di condivisione, dialogo e testimonianza. Per la costruzione del Regno di Dio, che viene davvero quando c’è fratellanza, giustizia, pace e dignità per tutti!
Luciano Gualzetti
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