
Emergenza coronavirus. Siamo già pronti
Dopo l’impennata di contagi, la Lombardia è stata dichiarata zona rossa. La locomotiva d’Italia ha dovuto spegnere di nuovo i motori, anche se per il momento non ha ancora staccato la spina. Difficile dire quanto duro sarà il contraccolpo sulle persone più fragili.
Ma quello che abbiamo vissuto in primavera non ci lascia tranquilli. La precedente chiusura ha creato nella Diocesi di Milano 9mila impoveriti: persone che non si erano mai rivolte prima ai servizi Caritas o che pur essendo già nelle rete di assistenza hanno visto peggiorare di molto la loro condizione. Sappiamo anche chi sono. Tra i danni collaterali del primo lockdown ci sono stati colf e badanti, lavapiatti, camerieri, addetti alle pulizie nei grandi alberghi: tutti lavoratori, alcuni in nero, altri con contratti precari, nei settori più pesantemente colpiti dal primo fermo alle attività. Ristorazione, ospitalità, cura della persona sono i comparti economici che si sono dovuti fermare anche ora.
Il governo ha stanziato nuove risorse per aiutarli. Bisogna augurarsi che si sia imparato dagli errori del passato. La cassa integrazione, specie quelle in deroga, non ha funzionato. Un persona su tre tra quelle che hanno chiesto aiuto ai centri di ascolto tra marzo e maggio pur avendo un contratto di lavoro o avendo diritto agli ammortizzatori sociali, è ricorsa al sostegno della Caritas, perché gli indennizzi spesso giunti in ritardo non sono stati sufficienti a soddisfare bisogni primari come acquistare il cibo o pagare le bollette o l’affitto. Mi auguro che questa volta si faccia meglio. Altrimenti dovremo far fronte ad una nuova ondata di richieste di aiuto che, in gran parte si aggiungerà a quella precedente, che non è mai del tutto ritirata anche dopo la ripresa.
Nel passato lockdown la Caritas ha dato prova di saper affrontare l’emergenza, riorganizzandosi in corsa. Ora sappiamo che il clima nel Paese è cambiato. Questa volta prevalgono sentimenti di rancore e sfiducia. Ma abbiamo un vantaggio rispetto alla primavera: sappiamo già quello che bisogna fare. Anche se non sarà facile, dovremo sostenere tutti gli strumenti creati o potenziati per l’emergenza: il Fondo San Giuseppe, il Fondo Diocesano di Assistenza. Implementeremo il sistema degli Empori della Solidarietà che si è rivelato una fondamentale rete di protezione ha anche salvaguardato la dignità delle persone, un aspetto fondamentale che ha permesso a molti credo di sopportare meglio questo periodo difficile. Certo, avremo bisogno di risorse. Fortunatamente si sono fatti avanti nuovi donatori che ci hanno sostenuto e che speriamo ci stiano vicini anche nei prossimi mesi.
Ma dobbiamo tenere a bada anche fragilità più sottili che sono affiorate in questi mesi. Penso ai più giovani e ai più vecchi. Nei mesi passati abbiamo potuto avere una prova evidente di quanto le disuguaglianze economiche tra le famiglie abbiano delle ricadute sulle reali possibilità di apprendimento dei bambini e degli adolescenti. I volontari impegnati nei doposcuola parrocchiali ci dicono che la didattica a distanza non è stata per tutti. Chi non aveva un pc, una connessione efficiente, un genitore disponibile, luoghi adeguati è restato indietro. E’ un dramma perché oramai è chiaro che per ancora molti mesi non si potrà tornare in classe e nel frattempo non sono cambiate le condizioni per quei ragazzini.
Penso poi agli anziani. Sono loro quelli che hanno pagato di più in termini di vittime. Ma non si è riflettuto abbastanza sulle ricadute che il lungo e forzato isolamento ha avuto sulla vita anche di chi non si è ammalato. Nei caseggiati popolari di Milano abbiamo anziani soli, disorientati, che anche quando il lockdown è finito, hanno continuato a rimanere isolati. Ora queste persone ripiombano nell’angoscia.
Anziani traumatizzati e adolescenti a rischio di abbandono scolastico sono ferite nuove. Avremo bisogno di tempo e di competenze più raffinate per poter intervenire efficacemente.
Luciano Gualzetti
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