Visitare i carcerati


Rispetto all’altra opera di misericordia che prevede di “visitare gli infermi”, quella che riguarda i carcerati si pone in termini decisamente diversi e impegnativi. Non è così semplice far visita ad un detenuto, a meno che non sia un congiunto. Certo, ci si può inserire in una associazione di volontariato carcerario, oppure rendersi disponibili col proprio gruppo giovanile ad animare periodicamente le liturgie domenicali del carcere della propria città.
Ma al di là della possibilità di “entrare” in carcere per un gesto di solidarietà, la questione si pone in termini culturali. Siamo in grado di riconoscere il peso della solitudine e dell'umiliazione, del rimorso e della disperazione di chi vive recluso, e cercare di colmare un abisso che solo l'accoglienza e la vicinanza possono in qualche modo fare propri? Siamo in grado di interrogarci rispetto a quali misure riusciranno a rendere consapevole del male compiuto colui che ha trasgredito. Riusciamo ad immaginare quali processi potranno generare una riconciliazione tra “vittima” e “carnefice”?
“Ero carcerato e siete venuti a visitarmi” (Mt 25,36). Le parole di Gesù presentano il carcerato come persona bisognosa di cura e di relazione. Ma se i destinatari delle altre opere di misericordia possono essere visti come vittime, come persone segnate da disgrazie, il carcerato porta lo stigma di una colpa, di un male commesso. Malgrado ciò Gesù non ha esitato ad identificarsi con chi è provato della libertà in prigione, a dimostrazione di una dignità che neppure il peggiore delitto riesce a far venir meno. A dimostrazione che per nessuno – in questa vita – è mai detta l’ultima parola.
Al di là di pochi “colletti bianchi”, la popolazione carceraria è formata in gran parte da poveri, emarginati, stranieri immigrati, tossicodipendenti: diversi di questi non hanno nessuno, non hanno persone che li vadano a visitare e dunque nessuno con cui parlare e da cui farsi ascoltare. Quand’anche dovessero arrivare a poter godere di “misure alternative” al carcere per scontare la pena, non hanno spesso nemmeno una famiglia in grado di ospitarli in casa. In queste condizioni è facile immaginare come questo stato di cose possa provocare abbruttimento o tentazioni suicide.
Chi visita un carcerato non dovrà avere chissà quali aspettative. Gli basti sapere che incontrerà molto verosimilmente una persona che sta facendo i conti con il senso da dare alla sua esistenza. Aiutarlo a fare memoria e a guardare in faccia il male commesso può far sì che il periodo di detenzione diventi un tempo di liberazione interiore e di riconciliazione con se stesso. Ma chi visita un carcerato avrà l’opportunità di riflettere circa i meccanismi più idonei e rispettosi della dignità umana per riabilitare chi si è escluso dalla comunità civile. La pena, specie quella che prevede la provazione della libertà, non potrà mai essere pensata in termini vendicativi. Ma francamente non possiamo affermare che le pure ingenti risorse che il nostro Paese deve impegnare nel sistema carcerario, riescano a produrre effetti positivi. Lo stesso Papa Giovanni Paolo II in occasione del giubileo dei carcerati del 2000 aveva messo in luce come moltissimi detenuti finiscono per uscire dal carcere peggio di come vi erano entrati, carichi di risentimento verso le istituzioni, incapaci di riconoscere il male inflitto alle loro vittime, privi di reali possibilità di reinserimento sociale e lavorativo.
La cura nei confronti dei carcerati non potrà non rivolgersi anche ai loro familiari perchè almeno siano consapevoli delle forme di assistenza di cui hanno diritto. Inoltre, il lavoro di assistenza e di prossimità ai carcerati non può essere scisso da un lavoro politico e da una riflessione che, in nome della dignità dell’uomo e dei diritti umani, cerchi di intravedere forme di pena che non privino totalmente della libertà ma che prevedano atti di consapevolezza del male commesso e di riparazione.
 
Roberto Davanzo
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