Ammonire i peccatori


Non so se sarà mai possibile stabilire una graduatoria relativa alla “difficoltà” delle diverse opere di misericordia, ma temo che quella che ora prendiamo in considerazione abbia buone opportunità per raggiungere il vertice della classifica. Intanto perché per essere una vera opera di misericordia dovrà navigare tra due scogli ugualmente pericolosi: anzitutto quello di un relativismo indifferente ed individualista che sostanzialmente fa ragionare col “vivi e lascia vivere”, ciascuno pensi ai fatti suoi senza impicciarsi nelle questioni altrui; l’altro che potremmo definire come fariseismo presuntuoso e che ti fa mettere su un piedistallo di superiorità da cui emanare sentenze e giudizi. Eppure, tra questi due scogli è possibile e doveroso trovare una rotta peraltro necessaria al buon vivere, alla edificazione di una socialità che, a prescindere da particolari visioni di fede, va perseguita a partire dal presupposto che siamo un po’ tutti responsabili gli uni degli altri e che non ci sono scelte individuali che non abbiano una valenza collettiva e viceversa.
Per chi ha la fortuna di possedere il bene della fede il riferimento a Gesù di Nazaret e la storia della spiritualità cristiana sono “paletti” preziosissimi per addentrarsi in questa difficile arte.
Da Gesù impariamo anzitutto uno stile fatto di parole e azioni che, mentre correggono e rimproverano, insieme salvano. Emblematico è l’episodio in cui Gesù stende la mano per salvare Pietro che sta sprofondando nelle acque e nel contempo gli dice: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. Gesù salva rimproverando e rimprovera salvando.
Nella vita della Chiesa la correzione fraterna, il rimprovero secondo il vangelo, deve sempre essere un atto che unisce misericordia e verità, compassione e parresia, autorevolezza e dolcezza. Il tutto a partire dalla decisione di rompere con l’indifferenza in cui spesso mi riparo per proteggermi dal faticoso incontro con l’altro. È bello il verbo “ammonire” che dà il titolo a questa opera. Deriva dal latino ad-monere, in cui monere indica il “ricordare”: l’ammonizione è un far ricordare ciò che si è dimenticato, è un riportare alla realtà chi se ne è allontanato. Se il peccato è dimenticanza di Dio e della sua volontà, una volontà che il peccatore conosce ma da cui si allontana, ecco che l’ammonizione dei peccatori si rivolge alla volontà debole di non ha saputo essere all’altezza della legge di Gesù.
Già, ma “come”? “Come” esercitare un’opera che addirittura può essere considerata un servizio, un ministero all’interno della comunità cristiana e, lasciatemelo dire, anche della società civile. Un’opera, un servizio, un ministero da cui dipende la qualità umana di una collettività, religiosa o laica che sia.
Risponderei allora sottolineando che la correzione è necessaria per non covare rancore nel nostro cuore: parlare alla persona che sbaglia, porre la parola tra me e lei diventa l’antidoto contro il risentimento che può diventare odio. La correzione non serve solo al bene del fratello che la riceve, ma anche al bene di colui che la esercita.
Questo però non basta. Chi si immette nella strada della correzione fraterna deve avere imparato a riconoscere il male che è in sé. Solo a questo punto potrà farsi carico del male del fratello. Solo quando avrò imparato a ricevere la correzione potrò dispormi ad esercitarla verso gli altri.
Infine, perché la correzione abbia qualche speranza di successo e produca in chi sbaglia la voglia di mettersi in discussione senza chiudersi a riccio nella propria permalosità ferita, è indispensabile che chi corregge affini una grande abilità, una straordinaria “furbizia”: nello scegliere il momento opportuno, nell’evitare che sia l’unica maniera di rapportarsi a quella persona, nel far sì che la stima che il fratello ha di sé non diminuisca ma accresca, nell’esercitarla sulle cose veramente essenziali, ... Quando questo avviene la correzione fraterna potrà procurare frutti di pace e di benedizione. E il nostro vivere sociale guadagnare in qualità.
 
Roberto Davanzo
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